A Villa Panza con l’arte di Sean Scully, il disarmonico orgoglioso

“La disarmonia è un’affermazione di vita”
Sean Scully

Sean Scully è un artista contemporaneo dal nome conosciuto ma non troppo, dallo stile fintamente essenziale e soprattutto dalle capacità rivalutative della materia, specialmente per la grande volontà e la curiosa abilità di produrre su tele metalliche d’alluminio quello che è stato sempre prodotto su tele di cotone e lino.

Il suddetto paragrafo ha detto un po’ tutto e un po’ niente, ma forse perché un po’ tutto e un po’ niente è quello che si evince e percepisce sensorialmente nell’atto percettivo della mostra inaugurata lo scorso 18 aprile a Villa Litta Menafoglio Panza a Varese, e visitabile fino al 6 gennaio 2020 (anche se non sorprenderebbe un’eventuale procrastinazione sulle date espositive…).

Long Light è il titolo-manifesto di una tematica molto vicina allo spirito evolutivo del conte Panza, anche se le opere ora esposte di Sean Scully non hanno mai fatto parte della sua collezione; in ogni tela, scatto o scultura plastica si avverte sin da subito l’imponenza dell’essenzialità, il macro-centrismo della luce e del colore, degli elementi valutati in quanto elementi e non solo come metafore che vanno capite e usate.

Il lavoro del dublinese Scully occupa un arco di realizzazione dagli anni ’70 ad oggi ed è esposto secondo un percorso che rispecchia la cronologia e le tematiche fondamentali della sua ricerca individualistica.

Attraverso le 80 opere esposte, e non solo di dipinti e sculture si tratta, ma anche di installazioni e di scatti fotografici che meritano tutta l’attenzione del caso, si impara a meditare un racconto, a capire l’interno emotivo di una natura che si annulla e di una persistente geometria che a tratti non si riesce neppure pienamente a intendere.

Questo atteggiamento misterico ed esoterico, rivendicato orgogliosamente come proficuamente disarmonico, non si capisce e spesso disturba e infastidisce. Ma  sarà , quasi sicuramente voluto così dal suo vate creatore.

Quella di Sean Scully è a tutti gli effetti una “rivisitazione del rivisto” che sceglie di abolire l’apparenza espressionistica del figurativo per accettare invece il timbro impressionistico dell’oggetto lineare e geometrico, con tutte le sue profondità e tutte le sue superficialità.

Wall of Light Blue Black Sea, Sean Scully, Olio su lino, 2009

Come in ogni tumore del tracciato artistico contemporaneo, accade purtroppo ancora una volta che si debba valutare il prodotto più attraverso la sua idea che attraverso l’apporto estetico e oggettivo in sé, in questo caso inesistente se non per il pathos dei colori, impiegati con devozione e tecnica.

Senza una precisa contestualizzazione delle opere, infatti, i contemplatori non riescono più a contemplare, trovandosi anzi in balia del colore impuro e saturo, quando in realtà è necessario valutare questo Scully solo attraverso un’analisi concettuale, onde evitare un disorientamento troppo estremizzante che di nuovo non ha molto.

Le opere, tutte, sono macchiate dal bollo invisibile di un decoro che non decora, già visto sulle tele di Burri e di Fontana, ma in questo caso più colorate e meno materiche.

Stabilizzando l’emorragia dei punti interrogativi, quelli che vengono a galla allo spettatore nel prendere visione di queste opere, inizia a regolarsi la livella dell’accettabilità comune, in una mostra non stantia, ma organizzata un po’ troppo “a blocchi stagni”, curata certamente bene dalla direttrice museale Anna Bernardini, ma resa unica soprattutto grazie all’eleganza della residenza varesina.

Potremmo riassumere il modo di proporre l’arte di Sean Scully con l’etichetta di “minimalismo della pressione”; nel percorso espositivo spesso svettano per la magnificenza delle dimensioni le sue super griglie, realizzate a olio o ad acrilico. Un tessuto luminoso e una trama di colore che diviene intricata e semplice cornice di se stessa, un disegno nitido e forte che non ha bisogno di troppe spiegazioni o fraintendimenti, e che rifiuta – a ragione – qualsiasi concepimento barocco.

Landline, Sean Scully, stampa-cromogenica, 1999

Le stampe cromogeniche, simili alle polaroid di Warhol, raccontano moltissimo di Scully e documentano ad hoc i suoi viaggi, il suo bisogno di ritornare alla Natura-matrigna disprezzata; alternandosi ad ambienti urbani dove predomina il ritorno della ripopolazione umana ancora celata, si manifestano i sintomi dell’abbandono e della reclusione dal bello.

Infine, con la sequenza di dipinti a olio su lino o alluminio Wall of Ligh o attraverso la serie Madonna, si vivacizza la linea inesatta della cromoterapia che Scully si somministra quando decide di creare e si indaga il rapporto madre-figlio in un’eterna relazione genitoriale da costui molto sofferta, specialmente dopo aver perduto nel 1983 il figlio diciannovenne in un incidente automobilistico a Londra.

 


 

FONTI

  • FAI
  • Cartella Stampa della mostra a cura di Anna Bernardini.
CREDITS

  • Foto di copertina e di testo di Alberto Sereni©.

 

 

 

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