Léon, 25 anni dopo: una lezione di vita

Era il 1994 quando nelle sale usciva Léon, film capace di amalgamare con sorprendente efficacia thriller e drama familiare, frenetica azione e critica sociale, fusi insieme dando vita ad una storia coinvolgente ed emozionante. A venticinque anni di distanza, il capolavoro di Luc Besson ha superato senza riserve la prova del tempo e rimane tutt’ora ineguagliato nel suo genere; non sembra allora fuori luogo rivisitarne oggi punti di forza e temi principali.

Little Italy, New York. Léon (Jean Reno) è un uomo solitario e alienato che si occupa di pulizie, eufemismo dietro al quale si cela un’attività da killer professionista al soldo del locale boss mafioso. Quando non è impegnato a portare a termine le sue mansioni di sicario con eccezionale e implacabile abilità, passa le giornate a tracannare latte (quasi potesse affogare in esso un’esistenza di apatia), allenarsi in silenzio, guardare vecchi film e prendersi cura della sua piantina, unica destinataria di un affetto goffo e stentato. La sua vicina di casa è la giovane Mathilda (Natalie Portman) che vive in una famiglia disfunzionale composta da un padre abusivo immischiato in traffici illeciti, l’odiata matrigna, una sorellastra maggiore e il piccolo fratellino di quattro anni.

Un giorno alcuni poliziotti della DEA, comandati dal sadico e corrotto Stansfield (Gary Oldman), fanno irruzione nell’appartamento accusando il padre di Mathilda di aver loro sottratto parte della droga che gli avevano momentaneamente affidato. Si scatena un conflitto a fuoco in cui Stansfield fa strage della famiglia; solo Mathilda sopravvive, trovando rifugio nell’appartamento di Léon. Il sicario, abituato a stare da solo, è riluttante ad accogliere le suppliche della giovane di tenerla con sé, ma si fa infine convincere a insegnarle il mestiere di killer. Incomincia allora un rapporto del tutto particolare, destinato a creare tra i due un legame profondo. Quando Mathilda decide di agire da sola, di fronte al rifiuto di Léon di aiutarla a vendicarsi di Stansfield, il burbero assassino non può astenersi dal lanciarsi in una disperata missione di salvataggio, pur consapevole del prezzo da pagare.

Jean Reno in Léon

Tra i pregi maggiori di Léon spicca la capacità di bilanciare ritmi e toni diversi, che Besson modula con sapienza così da creare un equilibrio fragile ma mai compromesso. Le caotiche scene d’azione piene di esplosioni e sventagliate di mitra sono interrotte da intermezzi d’umorismo quasi surreale alternandosi alle prolungate sequenze che approfondiscono i rapporti tra i protagonisti e i rispettivi conflitti interiori. C’è spazio anche per i momenti ora più teneri e spensierati, ora carichi di tensione quasi erotica, e per le fasi di un addestramento sottoposto a continui sovvertimenti delle aspettative.

Le interpretazioni dei tre attori protagonisti sono l’altro puntello su cui fa perno l’intero film. Una giovanissima ed esordiente Natalie Portman mostra già tutte le qualità che la renderanno una star di Hollywood; Jean Reno è perfetto nel combinare in un solo personaggio il freddo pragmatismo da killer e l’impacciata vulnerabilità di un uomo rimasto per molti versi ancora fanciullo; ma è soprattutto Gary Oldman che domina la scena col ritratto di un villain furioso e psicotico ma al tempo stesso spietatamente intelligente. Il suo Stansfield è un sadico e perverso schizofrenico che trangugia pillole e conduce massacri come sinfonie, una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento.

La parte focale della storia rimane comunque il rapporto tra Léon e Mathilda. La loro è una relazione ambigua tra individui molto diversi eppure accumunati da essere entrambi reietti della società; tra un uomo adulto rimasto bambino e una bambina costretta a crescere troppo presto. Sono padre e figlia; amanti (platonici); maestro e allieva, ma anche l’opposto. È un rapporto di reciproco insegnamento che si muove su più livelli in duplice direzione, e l’intero film può essere così letto come una grande lezione di vita.

Natalie Portman in Léon

Léon addestra Mathilda all’uso delle armi e al mestiere di sicario, ma anche, a un livello meno immediatamente evidente, a farsi rispettare e sopravvivere in un mondo che non fa sconti a nessuno. Lei invece gli insegna in primo luogo a leggere e a scrivere, impartendogli quella educazione che non aveva mai ricevuto; ma soprattutto gli fa conoscere la dimensione degli affetti, gli mostra come sia possibile tenere a una persona tanto da arrivare a sacrificare la propria vita per essa, come nella vita ci sia molto più che il freddo metallo di un proiettile indirizzato al cuore del proprio bersaglio.

Grazie al reciproco contatto, entrambi imparano a rapportarsi con l’altro e con la vita in un modo nuovo, a confrontarsi con emozioni troppo a lungo represse o persino mai sviluppate a causa di un passato fatto di traumi emotivi. Mathilda risveglia Léon dalla sua letargica apatia esistenziale e gli dona una prospettiva inedita, uno scopo e una direzione. Léon da canto suo salva Mathilda dal vortice di violenza (auto)distruttiva che minacciava di annientarla, è il barlume di speranza in fondo al buio, l’appiglio a cui la giovane può aggrapparsi per resistere alle correnti avverse di un mondo brutale e dalla confusione adolescenziale.

Léon tiene tanto alla sua piantina perché, dice, è come lui: libera e senza radici. Ma prima della fine capirà che questa è una mera illusione, che a volte la vera libertà è assumersi delle responsabilità, come quella di continuare a proteggere una giovane vita dopo averla salvata una volta. Sia lui che Mathilda impareranno a mettere radici. Ad amare.

“Is life always this hard, or is it just when you’re a kid?”

“Always like this.”

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