L’imperfezione della memoria. Intervista a Claudia Durastanti, de La Straniera

La letteratura ama la distruzione quale condizione per rendere possibile una nuova vita.

Il passato si sfuma tra cumuli di memoria stratificata; un labirinto di ruderi entro cui si fa strada il ricordo, accompagnato dalla sua manifestazione tangibile, la parola. Ne sopravvive un sguardo deformato del tempo che fu, rivelando una seconda e altrettanto veridica verità, che, se raccontata, si fa letteratura.

Claudia Durastanti, nel suo romanzo La Straniera, uscito per La Nave di Teseo e candidato all’imminente Premio Strega, ha saputo narrare perfettamente questa imperfezione della memoria. Un libro di genere sfuggente – se se ne potesse coniare uno apposito, sarebbe mitologico – che organizza in sei capitoli, che sono poi voci dell’oroscopo – Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei –, la vita familiare e personale dell’autrice. Un viaggio che segue i ghirigori di una linea del tempo frantumata senza però sacrificare l’andamento narrativo, convincente e ben riuscito.

Le migrazioni costrette e quelle deliberate; la disabilità; il senso, irriducibile, di diversità che si è posato sottopelle; un mondo parallelo e salvifico di libri, musica e film; un dolore celato e sparpagliato per farlo passare inosservato; una lingua che, se impugnata, scivola tra le dita. La vita che rompe le ossa, con delicatezza. C’è questo e molto altro ne La Straniera, affresco non solo familiare, ma di un’intera generazione, quella cresciuta con il mito del punk e l’attrazione verso tutto ciò che è «lurido e bellissimo», quella che rimpiange la vita underground di cui ha letto nei libri e negli occhi dei sopravissuti a una notte lunga un’epoca, quella che ha deciso di vivere lontana da casa, in paesi diversi, erede illegittima di una condizione che sarà sempre straniera.

A raccontarcelo, l’autrice Claudia Durastanti.

Non c’è un singolo atto di violenza nella mia vita che io riesca a ricordare senza ridere.

De La Straniera colpisce innanzitutto il tono narrativo – fermo, lucido, sarcastico, a tratti pungente – che potremmo quasi dire di rottura rispetto a un tradizionale registro confessionale e di facili abbandoni, tipico del generale memoriale. Ci parli di questa scelta?

Quando ho iniziato a lavorare a La Straniera, venivo da tre libri di fiction in cui avevo già “scaricato” il mio materiale biografico. Sono convinta che le figure del Padre e la Madre nel romanzo abbiano una carica virale e ossessiva molto più pronunciata che in un libro come quello che ho scritto, che non basta la presupposta «verità» di un memoriale a rendere vero il dolore, anzi. Leggendo un’intervista di Vivian Gornick sulla Paris Review in cui parla dell’arte del memoir e ricorda che in nessun caso il protagonista può dimenticarsi di essere un personaggio e deve comunque innescare una dinamica narrativa, ho riconosciuto qualcosa che mi è venuto di istinto: rapportarmi alla storia della mia famiglia come se fosse una sorta di leggenda, legata a un tempo mitico che non abito più. Il tono del libro è una conseguenza di questo approccio.

la straniera

Il tuo libro è un biografia familiare ma anche una cronistoria musicale, cinematografica e letteraria. Infilati tra straordinari aneddoti di vita, fanno capolino dischi, film, libri che ti accompagnano e scandiscono le tue vicende, quasi come avamposti, cesure della tua geografia interiore. Hai voglia di scegliere e commentare, per i lettori de Lo Sbuffo, qualche titolo di libro per te importante?

Ci sono diversi libri non citati nel testo che ho letto mentre iniziavo a scrivere La Straniera e che hanno aiutato a dargli una forma: tra questi sicuramente Bluets e Gli argonauti di Maggie Nelson, Zami: Così riscrivo il mio nome di Audre Lorde, Legami Feroci e The Odd Woman and the City di Vivian Gornick. E poi Le piccole virtù di Natalia Ginzburg ha avuto una funzione significativa, anche per comprendere che esiste una tradizione del personal essay in lingua italiana.

Tanti sono gli episodi, gli squarci illuminanti di improvvise riflessioni, che colpiscono e tra questi un ricordo di te bambina in colonia, lasciata dal primo fidanzatino perché svantaggiata nella sventura rispetto alla rivale in amore che «vomitava acqua salata e sofferenza a ogni tocco»: «Ero livida, lì sul bagnasciuga a pensare che mi avevano tolto anche quello: il privilegio di una sofferenza imparagonabile. A cosa serviva la storia della mia famiglia se non potevo ricattare tutti con la sua tragicità?». Com’è stato il rapporto con i tuoi coetanei da bambina? Come reagivano di fronte alla tua storia?

Dell’infanzia ricordo una solitudine e crudeltà che si è fatta via via più «democratica»: man mano che crescevo, l’eccezionalità della mia famiglia veniva ridimensionata e le vite degli altri bambini si crepavano e facevano affiorare problemi e difformità persino più violente e problematiche perché taciute. Crescere in una comunità marginale alla fine ha avuto anche una funzione protettiva, di tamponamento, eravamo tutti un po’ paradossali e selvatici e a posteriori quel periodo di isolamento mi ha dato tanta energia per la scrittura.

La Straniera è anche un discorso, complesso, sul linguaggio. Genitori sordi che rifiutano la lingua dei segni e si arrampicano su un italiano scosceso e sempre letterale; una figlia bilingue, nata in America, trasferita in Basilicata, emigrata a Londra, che dice stiro da ferro ma legge la beat generation alle elementari. Anarchia e disubbidienza, in primis alle costrizioni del codice, per cui tu scrivi: «Non sono più spaventata dalla mia tentazione o inclinazione verso gli errori». Che cos’è questa tentazione all’errore?

Credo che questo rapporto positivo con l’errore abbia a che fare con il tema della vergogna. La vergogna per il modo in cui parliamo, per la lingua con cui siamo cresciuti e in cui a volte inciampiamo, soprattutto se si tratta di una lingua composita come la mia o quella dei miei genitori, a fronte di un contesto sociale che tende a trattare la lingua come uno standard a cui non possiamo venire meno, perché quel venire meno ci rende sospetti, ed estranei. Di fatto, imporre una lingua è una delle prime operazioni che fa una cultura dominante quando ne assoggetta un’altra, e commettere e rivendicare errori nel proprio modo di parlare, è anche un modo di rovesciare la prospettiva e insinuare il dubbio.

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Claudia Durastanti

A marzo sei stata annunciata tra i candidati del Premio Strega. Ti aspettavi questo traguardo? Come gestisci e che effetto ti fanno gli improvvisi riflettori puntati sulla tua opera?

La consapevolezza della transitorietà di questi fenomeni di notorietà mi aiuta a gestirli in maniera spensierata. Più che altro è strano dover rappresentare il libro con la mia voce e la mia presenza fisica, quando il testo ha una forza sua e di fatto è quello che si propaga tra i lettori, in un certo senso ha una sua autonomia che l’autore rischia solo di depotenziare e limitare.

Chi è, alla fine dei conti, La Straniera?

Una figura quasi mitica che avvia migrazioni sconsiderate e rivendica il diritto di falsificare la sua esistenza fino a diventare la persona che vuole essere, una persona libera.


FONTI

Claudia Durastanti, La Straniera, La nave di Teseo, 2019.

Connie Palmen, Tu l’hai detto, Iperborea, 2018.

Intervista a Claudia Durastanti

 

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