L’ultima lettera

Un giorno era tornata a casa, all’ora di pranzo, e non aveva trovato nessuna lettera nella buca. Ci aveva infilato le dita, il palmo, la mano fino al polso, fino a farsi male, ma aveva sentito solo il freddo del metallo della buca da lettere vuota. Si era chiusa la porta alle spalle, si era tolta la giacca e si era buttata nel letto. Magari la busta era solo andata perduta, chissà dov’era in quel momento, chissà dove vanno a finire le lettere che non arrivano al destinatario. Si immaginò un grande magazzino buio, polveroso, pieno di buste gialle, bianche, rosa, azzurre, con la finestra o senza, con l’indirizzo scritto a mano o stampato. Lettere profumate, piegate, umide. Lettere d’amore, di rabbia, di soldi, di auguri. Tra tutte quelle ci doveva essere anche la sua.

La verità era che lui aveva smesso di scriverle. Non ci sarebbe stata più nessuna lettera, non ci sarebbero più state parole tra di loro, molto semplicemente.

Lei continuò, in silenzio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, a scrivere, a piegare i fogli, a metterli nelle buste, a inumidire la colla sul retro. Il primo cassetto della scrivania si trasformò in un reliquiario di parole non dette, un involontario diario delle sue settimane e della sua vita interiore.

Si scrive solo in assenza di qualcosa. Si dice “tu” solo in assenza di quel “tu”. Scrisse a nessuno e a se stessa per mesi, fino al giorno in cui svegliandosi trovò un suo messaggio. Era una fredda mattina di metà novembre, il vento era una lama affilata, il cielo grigio, l’atmosfera silenziosa, la gente pallida, la vita immobile come sempre tra ottobre e dicembre.

Si vestì in fretta, si avvolse la sciarpa intorno al collo e legò con un nastro blu il plico di lettere che aveva accumulato nel primo cassetto della scrivania. Era venuto il loro momento. Era ora che passassero in altre mani, nelle sue mani.

Lo vide seduto su una panchina di pietra, di spalle. Si fermò in mezzo alla piazza, respirando forte, strizzando gli occhi attraverso la nuvoletta di vapore che usciva dalla sua bocca ogni volta che espirava. Si sentiva sudata e fredda allo stesso tempo. Le facevano male le labbra e la punta delle dita era viola. Era lui. Continuò a tremare mentre si avvicinava. Gli mise i palmi delle mani sugli occhi, sentì le sue palpebre trasalire, poi gli liberò la vista e gli si sedette accanto.

«Ciao.»

«Ciao.»

«Grazie per avermi scritto.»

«Mi fa piacere vederti. Come stai?»

Lei rimase in silenzio. Accavallò le gambe e le intrecciò più forte che poté, le caviglie intorno alle caviglie, come un ramo di vite.

«Sto. E tu?»

Lui sospirò.

«Ho una cosa da darti.»

«Anche io.»

Lei tirò fuori il plico di buste bianche tenute insieme dal nastro blu. Lui estrasse dalla tasca della giacca una sola busta stropicciata e umida.

Senza dire una parola, senza quasi neanche guardarsi in faccia, se le scambiarono.

«Bene… Quindi parti?»

«Sì, tra tre mesi.»

«Sarà una bella esperienza.»

«Sì.»

Fissarono gli occhi sulla strada davanti a loro per non guardarsi. Erano abbastanza vicini da sentire i rispettivi profumi, amplificati dall’umidità dell’aria, e il calore dei loro corpi avvolti nelle giacche pesanti.

Lei odiava la sua razionalità, la sua freddezza, la sua capacità di gestire le emozioni, i sentimenti, le parole. Era sempre stato misurato in tutto, mai un eccesso, mai una sfuriata, mai una lacrima. Soprattutto, mai una lacrima. Avrebbe voluto picchiarlo, scagliarsi contro di lui, prenderlo a pugni, coi suoi pugni fragili, morsicargli una guancia, strappargli un pezzo, costringerlo a reagire. Lui era il muro contro il quale continuava a sbattere, contro il quale continuava a farsi male, senza riuscire a capire.

Perché fai così?, avrebbe voluto urlare.

Invece sentì se stessa dire: «Bene, ora devo andare».

Lui annuì e la abbracciò. Si strinsero forte, poi si alzarono e ognuno prese una strada diversa. Nessuno dei due si voltò per guardarsi indietro, per vedere dove andasse l’altro, per vedere la sua schiena ancora una volta.

Un giorno avrebbe capito che lui non aveva voluto farle del male. Le aveva insegnato a stare al mondo, a placare gli impulsi, a trattenere le passioni e le parole. Le aveva insegnato ad aspettare, ad avere pazienza, a essere lucida. L’aveva fatto per lei, l’aveva fatto per prepararla, per corazzarla contro gli uomini che altrimenti l’avrebbero sbranata. Lui aveva mitigato la sua febbre. Con quel dolore che le era sembrato insopportabile, lui le aveva insegnato a proteggersi da dolori ancora più grandi.

Anni dopo avrebbe aperto quell’unica lettera che lui le aveva dato quel giorno.

 


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