Il Ruanda 25 anni dopo il genocidio dei 100 giorni: la forza delle donne sopravvissute agli stupri di massa sta ricostruendo il “Paese delle mille colline”

Il 7 aprile 1994 in Ruanda iniziava la sistematica eliminazione dell’etnia Tutsi, che sarebbe proseguita per 100 sanguinosi giorni, causando più di 800.000 morti: uno dei genocidi più efferati e spietati del XX secolo dopo l’Olocausto. 25 anni fa, in questo momento, centinaia di Tutsi e Hutu moderati venivano massacrati dai vicini di casa, da coloro che poco tempo prima consideravano amici o addirittura dai propri parenti.

Lo scorso 7 aprile la comunità internazionale ha ricordato l’anniversario, la stessa che 25 anni fa durante il genocidio è rimasta a guardare con una consapevole indifferenza. Anche dalla prigione di Nyarugenge, dove sono rinchiusi molti dei condannati per i crimini perpetrati durante la pulizia etnica, sono stati celebrati eventi commemorativi, che in tutto il Ruanda proseguiranno per 100 giorni. Il presidente del Ruanda Paul Kagame, per l’occasione, ha dichiarato:

“Nel 1994 non c’era speranza, solo buio. Oggi la luce si irradia da questo posto. Come è accaduto? Il Ruanda è diventato di nuovo una famiglia.”

Un’escalation di odio sfociato in omicidi di massa

Il Ruanda, chiamato il “Paese delle mille colline” per la bellezza e la ricchezza dei suoi paesaggi, è stato vittima della colonizzazione franco-belga, vedendo l’incremento della divisione della popolazione nelle due etnie presenti: Hutu e Tutsi; una divisione cristallizzata perfino sulle carte d’identità. All’inizio degli anni ’90 i Tutsi hanno poi iniziato ad armarsi, aiutati dall’Uganda, e si sono uniti nel Fronte Patriottico Ruandese (FPR). L’inizio del genocidio è scattato il 6 aprile 1994, quando l’aereo che trasportava il presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana, e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira, è stato colpito e abbattuto mentre stava atterrando a Kigali. Il genocidio è stato organizzato e premeditato nei minimi dettagli, con liste delle persone da eliminare. Durante quei 100 giorni la radio nazionale mille colline incitava gli Hutu a massacrare i Tutsi, diffondendo nomi, cognomi e indirizzi presenti sulle liste. A mobilitare il maggior numero di persone ci pensò quindi una martellante e costante propaganda di odio molto simile a quella usata dai nazisti durante gli anni 30 e 40. Se gli ebrei erano chiamati ratti, i tutsi erano definiti scarafaggi: una disumanizzazione del nemico che ha caratterizzato tutte le forme moderne di genocidio.

“Scarafaggi che non siete ruandesi dovete morire! Ruandesi unitevi a combattere, uccideteli tutti, non avranno scampo!”.

Mentre i nazisti usavano le camere a gas, gli Hutu sono riusciti ad uccidere centinaia di migliaia di Tutsi a colpi di machete e bastoni chiodati, andando di casa in casa, di quartiere in quartiere. Un sistema di eliminazione molto meno costoso, ma allo stesso modo terribilmente efficace.

Il genocidio ruandese è stato inoltre il più veloce della storia moderna durato – si fa per dire – solo 3 mesi. Secondo le stime governative le vittime furono 1.074.017: 10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto. Un milione di persone uccise e il doppio diventate rifugiati per lo più nella confinante Tanzania. Per rendere l’idea del massacro: il 13 aprile 1994, in un solo giorno, ben 2.000 persone furono uccise a Kabarondo, una piccola località dell’est del Ruanda. I massacri terminarono il 4 luglio.

Cosa sono stati questi 100 giorni per le donne?

Una parola: stupro. Accompagnato da altrettante torture fisiche e violenze. Dalle indagini effettuate è emerso che furono istituiti veri e propri battaglioni della morte, ossia gruppi di uomini malati di AIDS reclutati negli ospedali, per prolungare le inguaribili conseguenze sulle vittime e sui loro eventuali futuri figli. Lo stupro è stato usato pertanto come arma di guerra a costo zero ma con effetti durevoli sulla società, riconosciuto come tale per la prima volta dalla giustizia penale internazionale nella sentenza Akayesu, proprio dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR).

Migliaia di donne sono oggi madri dei cosiddetti “figli del demonio e dell’odio”, ossia i figli nati dagli stupri di massa. Ciò costringe queste donne a una sofferenza psicologica senza fine. Tra 250.000 e 500.000 donne ruandesi sono state violentate, ma non esistono stime certe sui figli nati da tali violenze.

Perché il resto del mondo non ha reagito?

Probabilmente questa è la domanda più difficile a cui rispondere. Secondo alcuni, dare questa risposta aprirebbe un vaso di Pandora che la Comunità internazionale ha tutt’ora difficoltà ad affrontare. L’inerzia appare quindi come una macchia nera sulla coscienza del mondo occidentale, nonostante il contingente delle Nazioni Unite fosse presente all’epoca nel territorio, così come alcuni paesi europei quali Belgio e Francia (quest’ultima intervenuta solo nel mese di giugno). Le Nazioni Unite, sulla scia di quanto fatto a seguito della guerra nella Ex Jugoslavia, hanno poi istituito un tribunale internazionale ad hoc (ICTR) con sede in Tanzania, il cui mandato è terminato.

La Francia si è dimostrata molto attiva in quanto a giustizia riparativa, creando nel 2010 sotto la presidenza Sarkozy un polo specializzato in crimini contro l’umanità con competenza universale, che lavora anche in Ruanda; inoltre in Francia sono stati svolti numerosi processi contro gli esponenti coinvolti nei massacri ruandesi.

“Rwanda il paese delle donne” un documentario di testimonianza e di dolore, che mostra la straordinaria forza di rinascere

Lo scorso 8 aprile, proprio in occasione del 25esimo anniversario, la Casa internazionale delle donne di Roma ha ospitato la proiezione del documentario di Sabrina Varani “Rwanda il paese delle donne” con il supporto di Progetto Rwanda onlus.

Un film che, realizzato anche con la collaborazione dell’Unione Europea, ripercorre la drammatica storia del genocidio attraverso le dolorose testimonianze delle donne ruandesi vittime degli stupri di massa. La storia di queste donne è la storia di un paese che porta ferite profonde, ma anche la storia della ricostruzione attraverso la forza dei sopravvissuti stessi.

“Vedevamo la gente morirci vicino”

“Il cielo e la terra ebbero vergogna per tutto l’odio che c’era

“Il peggiore inferno visto sulla terra”

Una parte del documentario riporta la toccante testimonianza di una ragazza ruandese di etnia Tutsi, Ivonne, che durante il genocidio aveva solo 9 anni. La ragazza ha raccontato quei giorni e la difficoltà nel capire cosa stesse succedendo: la sua famiglia si trovava tra i primi nomi della lista di persone da eliminare. Ivonne racconta di come è riuscita a nascondersi e di quando è tornata a casa:

“ho trovato l’abitazione distrutta e cadaveri in giro per la strada che venivano mangiati dai cani.”

In quel momento ha desiderato solo di morire, aggiunge. Prosegue raccontando di come, seguendo la carovana di profughi è arrivata in un campo di rifugiati in Congo, prima di essere adottata da una famiglia italiana: ha avuto una seconda possibilità, cosa molto poco scontata, aggiunge.

Al termine del genocidio circa il 70% della popolazione ruandese sopravvissuta era di sesso femminile. Era necessario pertanto che queste donne, ormai rimaste sole, imparassero a sopravvivere lavorando. Come viene mostrato nel documentario, le donne ruandesi hanno trovato il coraggio di reagire attraverso la solidarietà e la condivisione del proprio dolore. Ne è un esempio l’associazione AVEGA, in cui le vittime degli stupri di guerra si incontrano e condividono gli orrori subiti spogliandosi della vergogna e del dolore. La parola e la vicinanza reciproca sono stati infatti usati come strumenti per curare traumi e per ricostruire un nuovo tessuto sociale, che era stato eliminato dal genocidio. Non è certamente semplice per queste donne guardare e accettare figli nati da brutali violenze:

“Voi mamme siete eroine pensando a come ci avete messo al mondo in quel periodo difficile”, 

dice commossa una delle ragazze nate da violenza.

Il documentario riesce a trasmettere come la straordinaria forza di queste donne abbia fatto da motore verso la rinascita di un paese intero.

Sono stati creati infine svariati progetti per l’empowerment femminile e per l’educazione scolastica, come “La casa della pace e della riconciliazione”. Inoltre, il governo formatosi dopo il genocidio ha coinvolto le donne sopravvissute in svariate decisioni importanti e in moltissimi settori della società. Attualmente in Ruanda le donne sono manager, proprietarie di aziende e di terreni,

una vera parità tra sessi

dice una testimone nel documentario. Tale atteggiamento segna un grandissimo progresso culturale. Le donne occupano oggi un ruolo fondamentale anche a livello politico: attualmente ricoprono il 61% di posti del Parlamento: il numero più alto al mondo di partecipazione femminile, in uno dei paesi più poveri della terra.

Il futuro del Ruanda è nelle mani delle donne? Parrebbe proprio di sì.


FONTI

Evento c/o la Casa internazionale delle donne di Roma 8.4.19 “Rwanda il paese delle donne”

Da Internazionale n.1300 pgg. 46-50 e n. 1302 pgg. 8-9

Human Rights Watch video

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