Il Giappone e il Karoshi: quando il troppo lavoro uccide

Il Giappone è uno dei Paesi con gli orari lavorativi più lunghi, talmente lunghi che alcune persone arrivano a morire per il troppo lavoro. Il termine coniato per descrivere queste tragedie è Karoshi, che significa letteralmente “morte per troppo lavoro”. È un problema così sentito, in terra nipponica, che il Giappone è una delle poche nazioni ad avere iscritto questo fenomeno tra le possibili cause ufficiali di morte.

L’origine del fenomeno

Inizialmente si potrebbe pensare al Karoshi come a un fenomeno legato a episodi isolati. In realtà, purtroppo, è intimamente connesso alla cultura aziendale giapponese, da sempre considerata come une delle più esigenti verso i propri dipendenti.

Per capirne la ragione, torniamo indietro nel tempo. Siamo negli anni ’50, e il Giappone si è lasciato abbondantemente alla spalle i postumi della Seconda Guerra Mondiale. Grazie alle politiche economiche del primo ministro Shigeru Yoshida, avvenne quello che fu definito “il miracolo economico”. Un’incredibile ripresa economica che portò il Giappone a essere, in quei tempi, la seconda potenza mondiale (oggi è la terza, dietro Stati Uniti e Cina).

Quello che contribuì a creare la forte cultura aziendale odierna fu la richiesta da parte di Yoshida, rivolta alle aziende che avrebbero dovuto fare la loro parte per la ricostruzione del Paese, di creare forza lavoro dando un impiego per la vita ai dipendenti. Questi, da parte loro, avrebbero dovuto ricambiare con la loro fedeltà. Proprio da qui la visione delle aziende giapponese di oggi, che pretendono che i propri dipendenti si dedichino anima e corpo alla causa del lavoro e siano fedeli al proprio ufficio assegnato. Sopra l’individuo c’è infatti il gruppo, e con esso la missione dell’azienda.

Soprattutto dai dipendenti più giovani, ci si aspetta che dimostrino la loro lealtà con turni lunghissimi di lavoro (fino a 16 ore giornaliere). Spesso sono le nuove reclute stesse che decidono di sacrificare la loro vita sociale per impressionare i propri capi e puntare alle promozioni. Da questa mentalità è emersa una potenza economica piuttosto contraddittoria: da una parte occupa il terzo posto nello scacchiere mondiale delle potenze globali, dall’altra si tratta di una delle nazioni con la produttività più bassa tra quelle del G7 (dovuto probabilmente al fatto che quantità non è per nulla sinonimo di qualità).

Il troppo lavoro come necessità?

Se volessimo guardare i dati che provengono da numerose ricerche, il quadro apparirebbe molto preoccupante: secondo una ricerca del 2016, un sondaggio effettuato su un campione di 10.000 lavoratori giapponesi ha rivelato che più del 20 % compie almeno 80 ore di straordinari al mese.

Questa mole di lavoro lavoro extra potrebbe essere dovuta al fatto che, come affermato in precedenza, il Giappone è uno dei paesi con la più bassa produttività tra quelli del G7. Ciò significa che le aziende sono in difficoltà, e per sopravvivere devono lavorare di più, portando anche i loro dipendenti a fare altrettanto. E in tutto questo, ogni anno l’eccessivo lavoro porta a centinaia di casi di Karoshi (secondo stime non ufficiali, data la difficoltà a riconoscere la causa di morte proprio come Karoshi, si parla di migliaia di casi in più).

Divenuto tristemente famoso è il caso di Miwa Sado, una reporter dell’emittente NHK che fece 159 ore di straordinari, prima di morire nel 2013 per insufficienza cardiaca dovuta allo stress. Oppure ricordiamo Matsuri Takahashi, una lavoratrice di soli 24 anni che fu costretta a fare 105 ore di straordinari dall’agenzia di pubblicità Dentsu. La giovane donna ebbe un crollo psicologico che la portò a suicidarsi gettandosi dal tetto dell’edificio del suo capo, la notte di Natale del 2015.

Quali soluzioni adottare?

Il Karoshi si presenta dunque come una vera e propria piaga sociale, e per arginare questa importante problematica il governo giapponese ha provato a incentivare i dipendenti a tornare a casa in orari consoni.

Inoltre, dopo la morte di Takahashi del 2015, il governo istituì una manovra chiamata “Premium Friday” (“venerdì premio”). Questa permetteva ai dipendenti di poter tornare a casa dal lavoro alle 15.00 ogni ultimo venerdì del mese. Purtroppo l’iniziativa, pensata per incentivare anche la valorizzazione del tempo libero dei lavoratori, non ha portato a grandi benefici. Possibili motivazioni sono da ricercare nel fatto che, dal momento che il singolo individuo non vuole sfigurare all’interno del gruppo lavorativo, se nessuno dimostra di voler uscire prima, tutti gli altri si sentirebbero a disagio a compiere il primo passo.

Oltre al governo, alcune aziende si sono attivate per dare più tempo libero ai propri dipendenti permettendo loro di tornare prima a casa, o incentivando le pause nel weekend. La stessa Dentsu, dopo la tragedia di Takahashi, ha implementato un impianto luci che le spegnesse tutte per le 22.00, con la motivazione di costringere i dipendenti a lasciare il lavoro entro orari logici.

Una scienziata politica dell’Università di Yale, Frances Rosenbluth, ha proposto come soluzione un piano che prevede agevolazioni fiscali per le aziende che assumano donne, ampliando così la forza lavoro, e manovre per il taglio delle ore lavorative.

Una strada lunga ma percorribile

In definitiva, il Karoshi è il risultato della cultura votata alla fedeltà e alla dedizione esagerata, che nel paese del Sol Levante impera, radicata nella società giapponese da molto tempo. Il cambiamento non può quindi che avvenire lentamente, confidando nella presa di coscienza che il governo giapponese in primis non può che diffondere, e sperando poi in una collaborazione sinergica delle aziende e dei lavoratori nipponici.

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