Il disturbo

Come fare a svegliarsi al mattino e a non pensare immediatamente che tutto andrà male? Come fare, nel momento in cui apri gli occhi, a non pensare a quella persecuzione? La paura di addormentarsi, prima, la paura di svegliarsi, dopo. Era il sentire gli eventi della vita scivolare tra le mani, come sabbia tra le dita di un pugno stretto troppo forte. Iniziavano i rituali. Gli accorgimenti non erano mai abbastanza, gli “e se” erano sempre troppi per poter vivere serenamente. Iniziava col lavarsi cinque volte le mani, e poi andava oltre, oltre, in territori inesplorati, in cui era capitata per sbaglio. Era una terra piena di rovi e di insidie, di labirinti della mente, di serpenti che si morsicavano la coda, di tutto che girava in tondo, eternamente, senza tregua. Aveva cercato di spiegarla, agli stranieri, quella terra in cui era arrivata senza sapere bene come, quei campi di desolazione e quelle foreste di paure. Perché sapeva, sapeva che quel luogo in realtà non esisteva, era inutile che glielo ripetessero. Soffriva doppiamente proprio perché sapeva, e si domandava in continuazione come avesse potuto la sua mente creare un mondo simile, tra tutti i mondi possibili. Era consapevole, e questo era per lei il dolore più grande. Ogni giorno era una battaglia che non finiva mai. Non bastava arrivare a fine giornata per calmare i demoni. Era una battaglia perenne. La notte era forse ancora peggio del giorno. Il sonno era un nemico pieno di mostri armati fino ai denti, pronti ad attaccare al primo segno di cedimento, alla prima palpebra leggermente socchiusa. Non conosceva più pace, non le era concessa più pace. Le forze venivano drenate via dal suo corpo, durante la notte, lasciandola completamente svuotata al risveglio, con solo un peso di piombo sul petto. Perché alzarsi? Per cosa alzarsi? Per chi alzarsi?

Anche quella mattina il suo tarlo era lì a rosicchiare, a creare buchi e lacune, buchi che andavano colmati controllando e ricontrollando ancora una volta di aver chiuso bene l’acqua della doccia. Per ogni nuova ossessione una nuova compulsione. Era così che si alimentava il mostro, dentro al suo corpo, e lo sentiva, lo sentiva quel verme solitario mentre si nutriva, mentre banchettava, mentre divorava la sua sicurezza, il suo controllo, mentre sputava veleno e alterava la sua percezione del mondo, della vita, di tutto. Era come un paziente anestetizzato che però sentiva ogni cosa, su quel tavolo operatorio che erano le sue giornate.

Si vestì, prese le chiavi della macchina, la porta di casa sbatté dietro alle sue spalle, due giri di chiave, ascensore, garage. Quando salì in auto eccolo, quel pensiero intrusivo, a cui nessuno aveva dato il permesso di entrare nella sua mente. Aveva chiuso la porta di casa? Ormai era in macchina, con la portiera aperta e quel dubbio atroce che col passare dei secondi, velocissimo, stava divorando la sua mente. Aveva chiuso la porta di casa? C’era un solo modo per saperlo: risalire e controllare. Però cazzo, sì, lo sapeva di averla chiusa. Cazzo. Quel verme, quel tarlo, i buchi che lasciava nella memoria. E se non l’avesse chiusa? Sarebbero potuti entrare i ladri. Sarebbero potute accadere mille cose, tutte terribili, tutte per colpa sua, per colpa della sua sbadataggine. Diede ascolto al verme. Chiuse il garage, chiamò l’ascensore, infilò la chiave nella toppa. La porta era chiusa. La rabbia divampò come un incendio. Lo sapeva di averla chiusa. Lo sapeva. E allora perché aveva dato retta a quel dubbio insinuatosi dal timpano del suo orecchio all’ultimo minuto? Ancora una volta l’ossessione aveva chiamato sibillina la compulsione che, imperativa, aveva ottenuto ciò che voleva. Avviò il motore, uscì dal garage. C’era traffico, traffico ovunque, coda a ogni semaforo. Era in ritardo, non sarebbe mai arrivata dove voleva arrivare. L’ansia le bagnò i palmi delle mani appoggiate al volante; sarebbero rimaste le temporanee impronte, i solchi della pelle, la curva dell’amore e quella della salute sulla pelle nera sintetica e fredda. L’ennesimo semaforo a cui era ferma diventò verde. Accelerò, forse un po’ troppo bruscamente. Non ci aveva pensato, stava pensando che era tardi, tardissimo. Quando si rese conto dello scatto in avanti che aveva fatto per partire, si sentì soffocare. E se senza accorgersene avesse travolto qualcuno, un pedone? Sapeva che non era possibile. Se ne sarebbe accorta. Se ne sarebbe accorta eccome, e lo sapeva. Ma allo stesso tempo non lo sapeva. Non era abbastanza, il verme aveva bisogno di nutrimento. Svoltò a destra, poi di nuovo a destra, poi ancora a destra. Senza volerlo veramente, si ritrovò a quel semaforo. Si guardò intorno. Corpi a terra non ce n’erano. Ripartì con più cautela quando scattò il verde. Cercò di rilassare le spalle, si rese conto di avere le mani strette sul volante come se fosse il suo unico appiglio. E se avesse urtato qualcuno, per errore, e questo qualcuno fosse caduto a terra quando lei era ormai lontana, si fosse rialzato, e ora stesse andando a sporgere denuncia? Continuò a guidare con lo sguardo perso nel vuoto, sospinta, trascinata, abbandonata, annientata. La giornata sarebbe andata avanti. La sera sarebbe arrivata. Il circolo vizioso non si sarebbe mai spezzato.

Come fare a svegliarsi al mattino e a non pensare immediatamente che tutto andrà male?

 


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