Incubi

Che cosa si prova ad avere di nuovo un incubo che hai già avuto?

Ti svegli, in un bagno di sudore, e ti dici: Siamo a tre. Quante altre volte ancora?
Sembra che non ci sia una fine; continuerà a ripresentarsi, ancora e ancora, con le stesse immagini sfocate, condensate, schiacciate, con lo stesso freddo sulla pelle appiccicosa e lo stesso senso di pesantezza agli occhi. Gli incubi che continuano a presentarsi sembrano dire: Vedi? Le cose non finiscono mai davvero. Tutto torna.
Hai paura. Alla fine arrivi ad aver paura di addormentarti, paura di avere ancora una volta quello stesso incubo. Ancora una volta sarebbe di troppo, sarebbe lacerante, sconquassante, insopportabile. Le ore scivolano lente, eterne, luminose sulla sveglia accanto al letto. Le guardi tutte, vedi i numeri susseguirsi l’uno all’altro, da zero a zero, da uno a nove, combinarsi in maniere diverse ma dire sempre la stessa cosa: non stai dormendo. Non puoi dormire. Non dormirai mai più. Perché se ti addormenti l’incubo torna, e sarai costretta a rivivere tutto ancora una volta.
Quando ti assopisci ti aggrovigli nelle lenzuola, ti leghi in nodi snervanti e troppo stretti, in un movimento continuo, fluido, senza pause, giri e rigiri, le ossa fanno male, la carne pulsa, non c’è pace, non c’è calma.
Riapri gli occhi: è passato un quarto d’ora. La notte è infinita davanti a te, dispiegata come un tappeto persiano; l’intreccio di fili di luce sul soffitto è l’unica cosa che puoi fissare con interesse e insistenza senza sentire troppo dolore.
Il mondo esterno è cambiato, ma il paesaggio interno è rimasto immutato; il tempo è passato, la realtà cammina in avanti, ma dentro al corpo qualcosa resta immobile.
La paura più primitiva, l’istinto radicato più nel profondo. L’ansia. Sono due le reazioni più comuni all’ansia: la fuga, e l’attacco. Avverto un pericolo, quindi scappo. Sento di essere in pericolo, quindi attacco, ti finisco prima che tu finisca me. Ma c’è un terzo modo di reagire: immobilizzarsi. Come il coniglio selvatico che si appiattisce più che può sul terreno sperando di non essere visto dal predatore, resto immobile contro il materasso, sotto alle coperte. Se trattengo il respiro l’incubo non sentirà il mio odore e non si attaccherà alle mie tempie. Devo restare immobile, ma non posso dormire, perché se mi addormento tutte le mie difese cadono, ed è quello il momento in cui io sono più fragile e in cui l’incubo può entrare in me.
Arriva la mattina. La casa inizia a svegliarsi: tuo padre accende l’abat-jour, il corridoio si illumina, e di riflesso si illumina anche la tua camera. L’acqua scorre all’interno della parete che divide il tuo letto dal lavandino. Aprono le persiane, i raggi obliqui del sole che sta ancora sorgendo entrano in cucina. Prendono le tazze dalla credenza e scaldano il latte, l’acqua, il caffè. È in quel momento che ti senti finalmente al sicuro. Pericolo scampato, la notte è passata senza lasciare troppi danni. Ti avvolgi in una coperta, ti giri dalla parte del muro lasciandoti cullare dal tintinnio dei cucchiaini nel porta zucchero e dai rumori della casa.
L’unica certezza che hai è che gli incubi hanno paura della luce del sole esattamente come tu hai paura del buio. Non si spingeranno mai oltre la soglia della notte, o almeno, così speri.
Chiudi gli occhi e cerchi di non pensare a nulla.
Che cosa si prova ad avere di nuovo un incubo che hai già avuto?
Sono salva. Per stavolta sono salva.

 


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