Il totalitarismo secondo quanto riporta la Treccani è “un sistema politico autoritario, in cui tutti i poteri sono concentrati in un partito unico, nel suo capo o in un ristretto gruppo dirigente, che tende a dominare l’intera società grazie al controllo centralizzato dell’economia, della politica, della cultura, e alla repressione poliziesca”. Storicamente, questo concetto venne utilizzato per la prima volta nel 1923 in un articolo scritto dal giornalista Giovanni Amendola per «Il Mondo» in cui analizzava l’ascesa del fascismo italiano. Infatti, se pensiamo alla parola totalitarismo, ci vengono sicuramente in mente i grandi regimi totalitari del XX secolo, come il fascismo, il nazismo e il comunismo.
Ai giorni nostri, però, sembra essersi formata una nuova forma di totalitarismo, quello digitale. Viviamo in un mondo in cui tutti sono connessi con tutti, in cui tutto è a portata di tutti: giornali, musica, film, libri, informazioni, e sembra davvero difficile tracciare il confine tra pubblico e privato. Secondo molti studiosi, Internet sarebbe diventato una specie di “maoismo digitale”, un totalitarismo cibernetico che nega al popolo la specificità della persona, riduce l’enfasi sull’individuo e cerca addirittura di renderlo obsoleto rispetto agli avanzatissimi computer. Un vero e proprio totalitarismo informatico, in cui l’accento cade sempre sulle parole «collettivo» e «tecnologia»; mai su «individuo» e «libertà».
C’è da chiedersi se si tratti di una cosa irreversibile o se c’è ancora qualche possibilità di “frenare” questa degenerazione tecnologica prima che sia troppo tardi. Secondo Lanier, non servono soluzioni tecniche -servirebbe piuttosto una maggiore educazione civica digitale-, non si può combattere la dittatura dell’algoritmo con un sistema di calcolo più sofisticato o moderato. Perché una società basata sul libero arbitrio sopravviva, deve cambiare il modello di business di Internet: infatti, in cambio della gratuità dei servizi offerti, i grandi colossi della rete succhiano agli utenti le informazioni personali sia offerte liberamente sia dedotte dai loro comportamenti. Per utilizzare in modo profittevole queste informazioni personali, il web intrappola gli utenti dentro una di quelle gabbie da esperimenti per topi, chiamata “Skinner Box”, grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e addirittura di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Allo stesso modo, vengono “studiate” le abitudini degli utenti per creare loro una comfort zone da cui sembra quasi impossibile venir fuori: ad esempio, dopo aver cercato qualcosa su Google, immediatamente sui social si viene “bombardati” di suggerimenti inerenti alla ricerca svolta. Questo perché nulla sembra sfuggire all’occhio onnisciente del Web 2.0 e, come sottolinea anche Lanier, se questo modello dovesse continuare diventerà sempre più impossibile evitare la manipolazione dell’opinione pubblica.
Lanier K., You Are Not A Gadget: A Manifesto, New York, Alfred A. Knopf, 2010