Il logo aziendale, non solo nella moda, rappresenta un punto di fondamentale importanza. Perché? In primo luogo è la prima impressione che si dà al consumatore, ma c’è molto altro. I loghi possono comunicare sicurezza, identità, savoir-faire, classe ed eleganza, ma anche diversità, particolarità e unicità. Non è solo una questione di tipografia. I caratteri classici, sempre morbidi e inclinati come la scrittura manuale, ci portano indietro nel passato, ricordano la manualità, la classe e l’autenticità. I font moderni, d’altro canto, sembrano quasi essere disegnati da architetti. Linee verticali e orizzontali, reputate eleganti e raffinate, diventarono il tratto distintivo dell’upper-class del lettering come nella testata di Vogue, dove le grazie sono affilatissime e filiformi, secondo un’idea di classe distante e spigolosa, come, afferma Falcinelli, gli zigomi delle donne chic.
“I nuovi loghi sembrano tutti uguali“. Questa accusa rimbomba come un’eco da ormai qualche tempo. Poco prima della settimana della moda di Londra, Burberry, ha rivelato la nuova versione del suo logo. Più duro, rigorosamente sans-serif (senza grazie), irriconoscibile. Il cambiamento ha fatto parlare: il logo prima d’ora non aveva subìto modifiche radicali. Imponente fu anche l’ondata di critiche suscitata da Balenciaga, nel 2017. Un’ondata di cambiamento sta travolgendo il mondo della moda: sembra che i celebri marchi abbiano preso alla lettera quei consigli su come costruire un logo efficace. Rappresentativo, utilizzabile, leggibile e chiaro, il logo deve però anche trasmettere unicità. Molti altri brand, di conseguenza hanno deciso di non abbandonare le loro radici, e di rimanere fedeli alla loro vecchia immagine: basti pensare a Louis Vuitton o a Chanel. Da sempre poco incline al cambiamento è anche Vivienne Westwood, sempre fedelissima al suo Orb.
Sans-serification, così qualcuno ha definito questa trasformazione, con connotazione negativa. L’omologazione, in un settore creativo come quello della moda, può essere pericolosa. Non si deve sottovalutare la possibile perdita di quei tratti distintivi e storici del brand. Tuttavia, possono esserci anche risvolti positivi. I nuovi loghi sono innanzitutto adatti all‘era digitale. Si passa sempre più tempo davanti a schermi sempre più piccoli. Il grassetto e il maiuscolo, risultano adeguati alla riproduzione su smartphone, senza perdita di dettagli. Allo stesso tempo, scrollarsi di dosso l’immagine di brand d’élite può essere un’arma a doppio taglio. Aiuta chi si avvicina per la prima volta al marchio, ma allontana tutti coloro che ne apprezzavano il carattere più elitario. Ad ogni modo la tendenza è chiara: il logo, di regola, non ha più bisogno di grazie ed eccesso. La nuova eleganza passa dall’essenziale, per diventare senza tempo.
Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design: da Gutenberg ai social network,Torino, Einaudi, 2014.