La moda: è davvero una questione di inclusione?

Dal razzismo al body shaming fino alle modelle curvy e di diverse etnie in passerella: la moda non smette di far parlare di sè. Ma, nel bene e nel male, è davvero importante che si parli di diversità? Negli ultimi mesi è diventata chiara l’urgenza di una vera inclusione nel mondo fashion, la diversità si fa sentire.

Il 2018 è stato un anno intenso, anche secondo i risultati di Tagwalk. Infatti, nel numero 821 di Vogue Italia nell’articolo 2018 diviso 20, emergono alcuni dettagli interessanti. Le tre modelle che hanno sfilato di più sono: Yoon Young Bae (Corea del Sud), Fran Summers (Inghilterra) e Adut Aketch (Sudan). Di queste, le prime due sono anche state le modelle più ricercate tramite i motori di ricerca. La diversità è stata inoltre la chiave dei casting per le sfilate: sulle passerelle di Versace, Burberry, Ferragamo e Klein hanno sfilato anche molte over 30. Secondo i Big Data, nel 2018, l’inclusione non sembra essere mancata. L’anno appena passato ha favorito, sulla carta, la diversità. Winnie Harlow, a proposito di questa tendenza risponde:

è importante rappresentare il mondo per quello che è, nella sua interezza. L’inclusione non dovrebbe mai essere un trend, ma la norma.

Questo dovrebbe far in qualche modo riflettere. La moda ha spesso celebrato l’inclusione come se fosse un evento speciale, uno strappo alla regola rispetto all’elitismo dominante, creando scandali o risultando offensiva. L’intento può esser buono, ma come ci insegna la storia le intenzioni spesso non bastano. Nel 2009, Karl Lagerfeld per Chanel, con la sua collezione Paris-Shanghai aveva suscitato non poche polemiche: in un video promozionale Coco Chanel sogna di visitare la Cina degli anni Sessanta e degli anni Trenta, una Cina però, estremamente stereotipata. Tra attori caucasici truccati per rassomigliare gli asiatici e ambientazioni non storicamente precise, il kaiser della moda dovette spiegare l’intento del film. L’intenzione era quella di omaggiare la sua visione del paese, senza pretese di precisione.

La domanda sorge spontanea: la moda ha imparato dal passato? Dolce&Gabbana ha fatto sfilare più di 150 modelle di tutte le etnie, per poi scivolare su una campagna dalla scarsissima sensibilità, ritenuta profondamente razzista a causa, ancora una volta, di stereotipi e battute fuori luogo. La protagonista indiscussa rimane sempre la Cina, grande incompresa della moda. Bacchette usate per mangiare spaghetti, pizza e cannoli (“troppo grandi” per l’attrice?). Il tutto si è concluso con un video di scuse, alquanto discutibile, e un brusco calo delle vendite. Rimuovere i video, sfortunatamente, non ha aiutato il brand a salvaguardare la sua immagine, inevitabilmente lesa dai presunti commenti razzisti di Stefano Gabbana, svelati dal profilo Instagram di Diet Prada.

Al polo opposto troviamo un altro importante caso, tutto italiano anche in questo caso. Tre foto postate sul profilo Facebook di Zalando per la promozione dell’intimo targato Calvin Klein, hanno suscitato reazioni avverse, questa volta nella sezione commenti. Sono state definite grasse e ciccione le modelle di taglia superiore alla 46 scelte dal brand. La risposta del colosso dell’e-commerce non è sicuramente mancata:

Da Zalando ci piace rappresentare e rispettare la bellezza autentica e la diversità delle persone. Allo stesso modo, rispettiamo opinioni e gusti diversi dai nostri e il diritto di esprimerli. Tuttavia, non accettiamo che la nostra pagina diventi un luogo per diffondere messaggi di odio, offesa o disprezzo: per questo motivo, siamo stati costretti ad oscurare alcuni commenti.

Una presa di posizione chiara, precisa, esemplare. Le modelle sono donne autentiche, la loro taglia non deve essere in alcun modo una stranezza da commentare.

L’inclusione insomma, non deve essere un evento, non deve necessariamente celebrare delle collezioni ispirate a diverse etnie. Deve venire da dentro. L’ideale sarebbe riuscire a rendere la moda un sistema aperto ma soprattutto rispettoso e più consapevole della diversità. L’inclusione dovrebbe diventare in primis un fatto culturale.


 

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