Il dramma dell’attesa. Il dolore di Marguerite Duras

Il 17 gennaio usciva nella sale La Douleur, film di Emmanuel Finkiel, tratto dal libro omonimo della scrittrice francese Marguerite Duras. Il dolore, pubblicato in Francia nel 1985, è un libro autobiografico dalla natura ibrida e di definizione impossibile.

Il dolore è fra le cose più importanti della mia vita. La parola “scritto” qui stonerebbe.

Composto da una prima parte di pagine di diario –  scritte dalla Duras nell’aprile 1945 – e da una seconda parte di cinque racconti – Il Signor X detto qui Pierre Rabier, Albert des Capitales, Il miliziano Ter, L’ortica spezzata, Aurélia Paris – , Il dolore è uno squarcio pulsante di vita e storia, parzialmente mitigato e addolcito dal balsamo dell’invenzione.

In questo libro, la Duras gioca con il significato profondo di letteratura. Al diario di bordo sono accostati racconti inventati, basati su storie vere con personaggi reali, che trovano in parte corrispondenza nelle pagine del taccuino. Una letteratura a metà tra inventio e realtà, con la Storia come collante. I racconti sono «testi sacri, frutto d’invenzione. Letteratura»; a differenza delle pagine autobiografiche in capo al libro che sfuggono e sconcertano la  stessa autrice.

Mi sono trovata davanti a pagine uniformemente piene di una calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma. Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura.

Ordine e disordine. Caos calmo e regolare. È forse questo il tratto più frastornante – anche per noi lettori – che emerge dall’iniziale dialogo interiore. Nel diario –  dimenticato per quarant’anni negli armadi di una casa di campagna – Duras racconta un’attesa estenuante, quella di suo marito, Robert Antelme, poeta e resistente come lei,  deportato prima nel campo di concentramento di Buchenwald e poi di Dachau. I quaderni raccontano in modo ordinato, razionale, freddo e lucido un’attesa logorante che porta l’autrice a forzare il limite della sua stessa vita. «Non più viva, ma ancora viva.»

«Non ce la faccio più a portare la testa.
Non è più una testa, è un ascesso.»

Con la fine della guerra alle porte, e un panorama europeo di piombo e cadaveri perennemente in filigrana, l’attesa diventa l’unico motivo per continuare – «ho scelto di aspettare come sto aspettando, sino a morirne» – , per affrontare il dramma universale della Seconda guerra mondiale. Sulla scacchiera bellica europea, ci sono gli uomini che combattono la guerra sul fronte della battaglia e ci sono le donne che lottano per un’altrettanto cruenta e mortifera guerra, in prima linea sul fronte dell’attesa.

Quelle del Il dolore sono annotazioni giornaliere di sincopata angoscia, nelle quali l’autrice, con una paratassi cruda e scorticata, registra con minuzia chirurgica ogni dettaglio, anche il più scabroso, il più raccapricciante, il più vero. Duras non tace, è tagliente come un coltello la sua prosa, che, a singhiozzi, fende la realtà, la fa a pezzi per riportarla nelle pagine del suo diario. Pagine che non appaiono come quelle di un effemeride convenzionale, intrise di intimità – a volte vergognosa, a volte impudica – ma di spaventosa, e a tratti spietata, lucidità.

Nei passaggi in cui descrive il ritorno del marito Robert, le sue parole gettano una luce bianca, ospedaliera, puntata sul redivivo. Sul suo amato marito, che è lui ma non è lui, che è tornato, fluttuante tra vita e morte – «in lui c’era ancora vita, appena una scheggia di vita, ma una scheggia sì» – e mutilato nel corpo e nell’anima. Duras in quel frangente, di fronte all’uomo tanto atteso ma reso irriconoscibile dalla guerra, è in grado di trovare parole, di nominare condizioni innominabili.

Per diciassette giorni l’aspetto della merda restò lo stesso. Inumano. Ci separava da lui più della febbre, della magrezza, delle dita prive di unghie, delle tracce che i colpi delle SS avevano lasciato sul suo corpo.

Il dolore è il dramma di una vita privata, un calvario quotidiano che diventa paradigma del destino universale. Una delle più preziose testimonianze che mostrano la difficoltà di vivere in un tempo che non si accetta, che ripugna e che uccide. Come si fa allora a fare i conti con la propria Storia e con la sua irrimediabile eredità?

Se l’orrore nazista viene considerato un destino tedesco, non un destino collettivo, l’uomo di Belsen sarà ridotto a vittima di un conflitto locale. Una sola risposta per un tale crimine: trasformarlo nel crimine di tutti. Condividerlo. Per sopportarlo, per tollerarne l’idea, condividere il crimine.

 


FONTI
Marguerite Duras, Il dolore, 1985, Feltrinelli, traduzione di G. Mariotti e L. Guarino

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