Di bestia in bestia: la cultura che eleva l’anima e nega la realtà

Di bestia in bestia, pubblicato per la prima volta da Longanesi nel 1989, è stato il romanzo d’esordio di Michele Mari, rimaneggiato dallo stesso autore e ristampato dall’editore Einaudi nel 2013 nel pieno della sua maturità letteraria. Il labor limae si è indirizzato verso un alleggerimento complessivo del linguaggio, raschiando via la patina troppo classicheggiante e l’accumulo di citazioni erudite. Il risultato è una prosa più fluida ma non per questo meno densa e affascinante. Non viene meno, infatti, la componente nevrotica e compulsiva che pervade la storia e il suo protagonista.

Il racconto si apre con un viaggio di tre studiosi, due uomini – di cui uno, anonimo, narra in prima persona – e una donna, che si risolve in paradosso: diretti a un convegno scientifico, per un errore di agenzia, si ritrovano in un paese diverso da quello di destinazione, sperduto tra i ghiacci e popolato da barbari. Questi, in una lingua indigena e incomprensibile, li indirizzano presso la dimora di un uomo “della loro razza”, che parla la loro lingua. I tre avventurieri giungono così in un castello arroccato nella natura gelida e innevata, abitato da un uomo, Osmoc – anagramma di cosmo – e dal suo titanico factotum indigeno, che egli chiama Epéo. Osmoc si dimostra immediatamente cortese con i suoi ospiti ed estremamente colto, come testimoniano il suo linguaggio erudito, le frequenti citazioni classiche e la sterminata biblioteca personale:

«Era uno spettacolo davvero imponente: immaginatevi decine di migliaia di libri in duplice ordine dal pavimento al soffitto, allineati con una precisione assoluta, e debitamente divisi secondo i criteri più saggi, quali per epoca e fra questi qualaltri (e s’intende i più antichi) per luogo di stampa e per torchio, altri per materia e nazione e autore».

Ma è proprio dal legame morboso con i libri che derivano le oscurità di Osmoc. Libri che sono allo stesso tempo sia finestre su vite, mondi e amori infiniti, sia privazione della realtà. Il personaggio, infatti, racconta di essersi immerso nella letteratura fin dai primi anni di età, divorando una quantità straordinaria di libri e subendone il fascino. Così catturato, comincia a ignorare la realtà circostante, non all’altezza delle storie custodite in quei volumi. Questo lo conduce a evitare anche i rapporti personali e quindi all’isolamento dai suoi coetanei e dalle coetanee – nei cui confronti cade sovente preda di un amore stilnovista – che venera da lontano, senza mai osare varcare la soglia dell’idealizzazione per non rompere l’incantesimo e continuare a scrivere i suoi sonetti. E ancora, i libri saranno l’unica difesa e forma di evasione dalla creatura “mostruosa” nascosta nel castello, Osac – anagramma di caos – gemello e opposto a Osmoc.

Così, se l’ambientazione “fantasy” strizza l’occhio a Mary Shelley e Bram Stoker, il tema del doppio non può che rievocare tensioni stevensoniane: da un lato un dottor Jekyll dotto e controllato, dall’altro Mister Hyde, pura bestialità. Questo genere di citazioni letterarie sono frequenti nella narrazione e costituiscono la struttura portante del romanzo, ingaggiando continuamente il lettore e invitandolo a rintracciarle. Altrettanto riconoscibili sono i caratteristici topoi non solo del romanzo gotico – l’ambientazione, le atmosfere cupe e l’ambiguità dei personaggi – ma anche quelli del romanzo postmoderno di cui risente Di bestia in bestia, come la deformazione grottesca dei personaggi e il ribaltamento in chiave ironica e quasi parodica della tradizione letteraria precedente, ma anche la narrazione “inattendibile” affidata per decine di pagine allo stesso Osmoc.

Il motore che innesca questa macchina narrativa è la vicenda amorosa, anche questa presentata in continua tensione dualistica, che pone al centro la figura di Emilia. Da una parte troviamo l’amore spirituale, persino stilnovista, che è trascendenza e pura idealizzazione dell’amata, nonché rifiuto e disinteresse per la sessualità da parte di Osmoc:

«La natura d’amore è la natura del sogno; e sempre il sogno non è, perché se fosse perderebbe la qualità che ‘l fa sogno, e leggero: strana condicio, di essere non essendo, e di non poter essere attraversato, come la morte…»;

dall’altra, il desiderio carnale e animalesco di Osac, che «all’età di sei anni era già irresistibilmente attratto dalle sue incaute compagne di giochi». Il risultato di questa tensione è una tragedia preannunciata.

Infine, particolare attenzione merita la lingua: impegnativa, sostenuta, aulica e non di rado latineggiante. Oltre a contribuire in gran parte all’atmosfera sospesa del racconto, rappresenta la cifra stilistica che maggiormente differenzia Michele Mari dagli autori a lui contemporanei. Le citazioni colte estratte da epoche differenti e il pluralismo linguistico hanno l’effetto di un caos “ordinato”, di un’esplosione controllata. Ai lettori l’onere – e il piacere – di lasciarsi traghettare da questo flusso linguistico, divertendosi a rintracciare riferimenti noti e sconosciute possibilità.

 


FONTI

M. Mari, Di bestia in bestia, Einaudi, 2013

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