La sventura di nascere donna nella Shoah

“Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.”

Da “Se questo è un uomo”, struggente libro della memoria dell’italiano Primo Levi, deportato poiché ebreo nei campi di concentramento e testimone oculare dell’olocausto durante il nazi-fascismo.

Tale passo è stato letto lo scorso 24 gennaio durante la celebrazione per la commemorazione della settimana in memoria della Shoah, tenutasi presso il Palazzo del Quirinale, dinnanzi alle più alle cariche istituzionali dello Stato, ai pochi sopravvissuti ancora in vita nonché ad alcune giovani scolaresche. Il 27 gennaio di 74 anni fa fu infatti liberato il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, divenuto simbolo del male più assoluto e della sconfitta dell’umanità. La cerimonia di quest’anno è stata dedicata alle donne vittime della follia nazista: non solo ebree ma anche donne di etnia Rom, disabili, zingare, dissidenti e slave.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso, ha dichiarato che “non può esistere una democrazia in quelle società in cui si negano diritti e uguaglianza alle donne”.

Un tema, quella delle donne nella Shoah, che di rado viene affrontato, nonostante sia noto l’impegno pubblico e la visibilità di alcune delle più importanti testimonianze femminili italiane.

 Le donne della nostra memoria

La senatrice a vita Liliana Segre, le sorelle Bucci sopravvissute agli esperimenti medici del Dott. Mengele e la scrittrice ungherese Edith Bruck, per citarne alcune. Queste testimonianze sono quanto mai preziose e purtroppo ormai rare: pochi sono infatti i sopravvissuti dell’Olocausto tutt’ora in vita.

Liliana Segre nei suoi discorsi dentro e fuori dal Parlamento ci ricorda senza sosta come il vero schiaffo fu l’indifferenza delle persone che, fino al giorno prima dell’emanazione delle leggi raziali, la consideravano come un essere umano.

Edith Bruck, ebrea ungherese, naturalizzata italiana, sopravvisse da bambina ai campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Christianstadt e Bergen-Belsen, insieme alla sorella. Durante la cerimonia, sono stati letti alcuni passi tratti dai suoi libri, dai cui non traspare odio, nonostante ne sia stata vittima, bensì una nuda e cruda testimonianza, senza fronzoli né opinioni, come se giudicare quanto subito sia solo compito della storia. La Bruck ha rilasciato anche un’intervista durante la commemorazione e ciò che si evidenzia è la sua lucidità e le sue parole dirette, che colpiscono inesorabilmente le coscienze degli uditori: “è impossibile riuscire a descrivere con esattezza tutto quello che ci hanno fatto e quello che ci hanno fatto sentire, è impossibile raccontare con esattezza quando vedi un bambino a cui spaccano la testa contro il muro”. Essa, infine, ha dichiarato come non sia per niente facile diffondere oralmente la propria esperienza, anche dopo decenni, ogni volta è come scendere nell’inferno della propria memoria e non ci si abitua mai. Ha svelato infatti che, durante un incontro presso una scuola, è finita al pronto soccorso per un malore. Nonostante ciò, l’impegno, per portare la legalità nelle scuole e sensibilizzare le giovani generazioni è sentito come un dovere morale, in onore e in rispetto di chi, in quei lager, ci è morto. La memoria rende liberi.

Le donne nel nazi-fascismo

Le donne all’epoca del nazi-fascismo erano considerate esseri inferiori: una visione che non riservava sconti neanche alle donne ariane, considerate alla stregua di meretrici di bimbi ariani e della futura razza perfetta, senza nessun ruolo politico nella società. Il loro compito era quello di madri, donne devote e dedite alla casa e alla famiglia. Se nella società ariana la donna era solo uno strumento per procreare, alla donna ebrea erano riservati trattamenti assai peggiori, in quanto vista come un pericolo perché capace di partorire altri “parassiti ebrei”, così li definisce Hitler nel suo Mein Kampf.

Come descrive Primo Levi nelle poche ma esaustive parole iniziali, le donne prigioniere nei campi venivano spogliate della propria umanità, rese tutte uguali come manichini e prive di linfa vitale, senza più capelli, magre e scheletriche dalla fame, derubate della loro bellezza esteriore e, con il tempo passato dei campi, anche interiore. Donne a cui è stato tolto tutto, dalla femminilità ai figli e non c’è niente di più scontatamente vigliacco che togliere un figlio ad una madre impotente. Madri che hanno visto i loro figli morire di fame tra le loro braccia, per cosciente crudeltà. Ci viene raccontato che le donne, una volta scese dai treni che le portavano ai campi, erano destinate: ai lavori forzati o alla prostituzione oppure direttamente alla morte nelle camere ai gas o nei forni crematori. Donne umiliate e violate oppure direttamente uccise.

Allo stesso tempo, Il processo di disumanizzazione a cui portava la permanenza nei lager, coinvolgeva anche le guardie che sorvegliavano le detenute: esse erano diventate donne senza più uno straccio di pietà, e come sosteneva la scrittrice Hannah Arendt, il segno tangibile del male in tutta la sua banalità.

Il campo femminile degli orrori

Raramente ci si ricorda che a 90 chilometri a nord di Berlino era stato creato dai nazisti un lager solo per donne: il campo di concentramento femminile di Ravensbruck. Uno dei tanti campi della vergogna, della barbarie e della violenza.

La gravidanza delle donne ebree era considerata un ostacolo all’eliminazione dell’intera razza ebraica, ed esse erano così costrette ad abortire. Ove la pratica dell’aborto non era possibile, i neonati venivano lasciati morire di fame dinnanzi agli occhi della madre. Non veniva loro permesso di allattare, rendendo così queste donne complici dell’omicidio dei loro figli. Molte di loro impazzivano o si suicidavano. Altrettante però furono simbolo di resilienza e resistenza fisica e psicologica. Nel campo le prigioniere venivano sottoposte ad esperimenti pseudo medici. Altre ancora venivano impiegate nei bordelli dei lager maschili a disposizione degli internati criminali comuni e al personale di guardia, per incrementarne la produttività.

Durante la cerimonia si puntualizza che, sebbene nel territorio italiano non siano mai stati costruiti campi di concentramento veri e propri, l’Italia si sia resa responsabile dell’emanazione delle leggi razziali nel 1938 e della deportazione di circa 9.000 ebrei italiani nei lager, così da non poter escludere la nostra estranierà ai fatti, seppur indirettamente.

Il Presidente Mattarella ha concluso ricordando che “Il giorno della memoria è un invito alla vigilanza”, siamo pertanto tutti chiamati a non essere mai indifferenti, a non dare mai niente per scontato e a conoscere il nostro passato, perché, come ci ricorda ancora Primo Levi, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.

 

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