Houellebecq: esperienze di vita anti-moderna

Qualche giorno fa é uscito nelle librerie italiane Serotonina, il nuovo romanzo di Houellebecq, da molti considerato il genio della letteratura francese contemporanea. L’autodefinitosi “Zarathustra delle classi medie” continua a raccontarci dei drammi dell’essere nel mondo, dell’essere con gli altri e con l’altro, nel tentativo di render conto metaforicamente di quell’ineffabile viziosità della cultura (politica e sentimentale) dei nostri tempi. Inconfondibile nella sua poetica mistica, chiassosa, ma popolare, Houellebecq è stato spesso ricondotto a quel largo e variegato filone anti-moderno della letteratura moderna e contemporanea, disobbediente come Pasolini e controverso come Pound, violento come Céline e pericoloso come Lautréamont. È un autore universalmente riconosciuto come un “anticipatore sociale“, un profeta, una Cassandra del Capitale. Tuttavia, se romanzi come Estensione del dominio della lotta e Sottomissione sono legittimamente passati al dominio della storia, l’opera poetica di Houellebecq è ingiustamente ritenuta secondaria.

“Sparita ogni credenza

Che faceva edificare

Essere e santificare,

Abitiamo l’assenza.”

Nella raccolta Configurazioni dell’ultima riva (2013), coerentemente con lo spirito semantico di tutta la sua opera, Houellebecq riporta l’esperienza del dramma dell’”assenza”, il contraltare moderno dell’”essenza”. La città contemporanea non ha salvato lo Spirito della Storia, l’ha piuttosto assimilato, identificato nello sconfinato mucchio posticcio del “già visto”. Ciò che è creativo non è del nostro secolo, ciò che è nuovo non è moderno. È bastato qualche secondo di storia, di logica del profitto, di mercificazione del più puro e di caricatura del più sacro per annientare il mondo, annientarlo, sia chiaro, nella sua totalità composita, nel suo rigore sempre ordinato e impossibile da evadere. Un mondo falsamente nuovo, che progredisce e si specializza nell’ordine, dimenticandosi dell’eccesso, della trascendenza, dell’anima.

“Non ho più fondo interiore,

Né passione o calore;

Presto mi riduco al lume

Del mio solo volume.”

Esiste ciò che “c’entra”, si scarta ciò che inquieta, infervora, inferocisce. È finito il tempo della rabbia e dell’amore, è cominciato quello dell’”intensità permanente”, della “notte indifferente”. Spesso Houellebecq è stato additato come misantropo, razzista, pornografo, volgare; e a ragion veduta! La violenza del non dire ciò che s’incastra nella logica del permanente è la marca da bollo del poeta libero, che evita di contraffarsi. “Perchè dobbiamo scrivere/ Libri nel deserto indolente?”, si chiede, e si risponde che “Ogni inverno ha la propria esigenza”, come ogni malattia cerca la propria cura, e ogni pentito spera nella redenzione. Houellebecq è consapevole di doversi incastrare nel mondo che abita, che egli “S’iscrive nella generazione”.

“Mi guardano come se stessi compiendo azioni ricche d’insegnamenti. Non è così. Sto crepando, tutto qui.”

Banalmente, sembra dire, vivere è morire un po’ alla volta. Ma forse resta l’amore? No, anche quello è figlio di tempi andati. Non si fa l’amore come prima, non ci si ricorda se vogliamo fare sesso o ricordarcene. La coppia viaggia nel piatto paesaggio dell’ubiquo, la luce di una speranza non è che l’apparenza di una posa.

“Come un pesce naif, truccata

Nell’acquario delle nostre sofferenze

Camminavate, ed ero catturato

Dalle vostre lontane apparenze.”

Ogni istante su questa terra rinforza l’”evidenza del diminuire”: gli scopi lirici abortiscono, l’illusione della vita è il non credere ancora nella prevedibilità di ciò che ci circonda, della banalità del medesimo e della neutralità del necessario. Il XXI secolo è ciò da cui non si fugge: “Non ritornerò, /Non ritornerò più”. L’essere umano se l’è mangiato il tempo, ogni individuo non è più tale, solo spazio-occupato. Ogni individualità è illusoria: è genuinamente compensazione di una folla moribonda di “chiunque”.

 

 

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