Un promessa non mantenuta

 

In America, la fondazione del nuovo Stato si coniugò con la promessa della felicità. L’impegno per la felicità coinvolse tutti, dai cittadini ai governanti, consentendo così il progresso dei “contadini di Jefferson”, ma mantenendo come esclusi “i figli dell’Africa”. Il diritto alla felicità è così sia fonte di legittimazione sia ostacolo ad ogni tipo di integrazione sociale. E nella società americana diventa il motivo di forza di una società individualistica basata su uno standard costituzionale che nel tempo si è affermato al livello mondiale.

E proprio nel XIX secolo, irrompono due società: una fondata su un forte senso eudemonistico, l’altra costituita da una massa di poveri infelici ridotti in schiavitù e mossi dalle necessità reali della vita ad accettare l’infelicità. Individui dominati dalla furia e dalla frustrazione, per i quali erano sconosciute le forze conoscitive della razionalità. Ed è qui che si afferma il pensiero di David Walker.

Riguardo a David Walker non si hanno numerose notizie sino al 1810. Ciò di cui siamo a conoscenza è che sia legato ad un cristianesimo evangelico, nutrito nella città di Charlestone nella Carolina del Sud. Dopo la cospirazione ordita dallo schivo Denmark Vesey, nel 1822, Walker intraprende un viaggio attraverso gli USA che lo porterà nel 1825 nella città di Boston. Entrato nella loggia massonica africana guidata da Price Hall, si distingue tra gli intellettuali afro-americani e ricopre il ruolo di corrispondente locale del “Freedom’s Journal” inaugurato nel 1827. E avverrà nell’anno successivo la fondazione della prima organizzazione abolizionista “General Colored Association”. Ma è solo nel 1829 che compare in prima edizione il suo elaborato “Appel to the Coloured Ctizen of the World, but in Particular, ancd Very Expressly, to Those of the United States of America”. La sua opera raggiunse il nord-America e si diffuse al Sud tra gli schiavi: fu un pericolo per l’ordine sociale. A tal punto che sulla sua testa venen posta una taglia di 3000 dollari; e il 6 agosto del 1830 venne ritrovato morto a Boston.

La sua è una filosofia sociale, che viene espressa nei termini di una filosofia dell’infelicità. Walker scrive infatti che le sofferenze si addicono agli individui più infelici e oltraggiati che abbiano mai vissuto dall’inizio del mondo, gli individui ridotti in schiavi dai bianchi americani. A questi uomini non è concesso diritto naturale. E sono così sottomessi, quando la sottomissione servile non è elemento naturale dei “neri” dato che, anche essi, sono uomini con capacità di giudizio. Eppure, è la sola capacità di giudizio a rendere gli uomini liberi e felici.

Walker parla però parla di “wretchedness”: felicità mancata, mancato benessere. È uno status in cui vi è la totale caduta del “self”, in cui l’uomo non può che essere infelice, sfortunato e miserabile. Un termine da lui preferito alla parola “un-happiness”. Termini uguali apparentemente, ma con una differenza fondamentale: l’infelicità che si intende con il “wretch” è legata tanto alla natura soggettiva del self quanto ad una sfera comune di appartenenza oggettivamente rappresentativa delle forme della miserabilità dei wretches.

Le cause dello status di infelicità a cui sono sottoposti gli africani sono secondo Walker:

slavery, ingorance, preachers of the religion, colonizing plan.

Quattro motivi che su un piano prettamente ontologico trovano come prima causa: la colonizzazione.

Eppure l’America è il baluardo della razionalità, si identifica con tutto ciò che c’è di morale, civile o politico nell’emisfero. Ma come nota Graziani, la linea del razionalismo americano si riduce ad una protesta contro l’Europa e la colonizzazione, causa dell’infelicità nera, un mezzo necessario per affermare la coscienza di elezione in nome delle civilizzazione. Ma gli afroamericani non fanno aprte dell’America, non rientrano nel progetto di affermazione dei “universal principles” posti a fondamento delle civilized communities.  Perciò fuori da una prospettiva morale e culturale volta allo sviluppo del self.

Walker decostruisce così il mito americano della felicità, in nome di una felicità che è strumento per l’azione in vista di un nuovo processo di trasformazione della stessa società americana. Non stupisce che in questo consenso subentri il mito dell’esodo, strumento di radicalismo politico, decifrazione dei significati culturali e forza paradigmatica di un processo politico dinamico. Nella visione walkeriano, in sostanza, la dinamicità del processo politico, il cui fine è la libertà e l’infelicità individuale, non è ascrivibile ad uno status bensì è il risultato di un’azione. L’esodo è un viaggio che si tramuta nel perseguimento della felicità che è azione di uomini liberi e uguali. il richiamo al mito dell’esodo elegge la comunità nera a popolo scelto, scompaginando le retoriche autocelebrative dell’ideologia dominante.

Ma secondo quali matrici Walker definisce l’esodo? Alcune assumono la forma della resistenza che si tramuta in liberazione e si tradure nelle forme di riconoscimento del diritto di fuga necessario per il perseguimento della felicità. Altre innervano nelle forme di autodeterminazione del popolo nero, in virtù della riabilitazione del soggetto e del recupero della dimensione soggettiva di popolo inteso come comunità di individui che auspica a diventare una moltitudine di indiivdui la cui vita è regolata dal diritto.

Quale è stata così, in breve la linea di Walker? Il desiderio di combattere l’ideologia eudemonistica incarnata sulla superiorità americana e rivendicare la compiuta felicità che è la vittoria dell’happiness sul wretchedness.

Fonti:

“Giudice del Proprio Benessere. Happiness and Wretchedness: Thomas Jefferson, David Walker” di Graziani (Edizione 2015)

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