L’ergastolo è davvero la soluzione migliore?

Una frase interrompe le speranze per un uomo incarcerato: “fine della pena: mai”. È già difficile e straziante allo stesso tempo immaginare di trovarsi un giorno a leggere una simile dichiarazione all’interno di una cartella che porta il tuo nome. Immaginare che questo possa accadere nella vita reale fa ancora più paura. Secondo i dati rilevati a marzo 2018 in Italia sono 1677 le persone che sono condannate all’ergastolo ostativo e dunque per 1677 persone, la frase che incute più di tutte terrore e angoscia, è diventata realtà.

Colui che viene condannato all’ergastolo ostativo non gode delle stesse libertà di chi invece viene condannato all’ergastolo condizionale, ad esempio la possibilità di ottenere permessi, semilibertà, libertà condizionale dopo 26 anni di reclusione in caso di buona condotta e sconti di 45 giorni ogni sei mesi. Per l’ergastolano ostativo questo è soltanto un sogno, è sostanzialmente una pena di morte: si entra in carcere da vivo e si ha la certezza di uscirne in una bara, non ci sono vie di scampo.

Proprio la crudeltà di tale pena ha fatto più volte discutere diverse personalità del panorama intellettuale italiano, come Umberto Veronesi, il quale si è schierato tra chi crede che l’ergastolo sia una punizione da abolire poiché, attraverso studi scientifici, è stato rilevato che non favorisca il recupero sociale, educativo e morale del carcerato. Veronesi sostiene che il nostro sistema di neuroni non sia fisso né immutabile, anzi è capace di rinnovarsi in quanto plastico, dunque il cervello di un detenuto che abbia commesso un crimine, si presuppone non sia lo stesso dopo decenni di reclusione. L’ergastolano invece, è considerato una persona irrecuperabile, per questo motivo per lui non c’è altra via d’uscita che la prigione a vita, intesa come forma di sicurezza per l’intera comunità, poiché vi è il pregiudizio che colui che ha commesso un omicidio, se si trovasse fuori dal carcere, ricommetterebbe sicuramente lo stesso reato. Secondo Veronesi e secondo le neuroscienze invece, attraverso un programma di recupero dell’individuo, si può rendere docile anche il criminale più pericoloso.

L’idea che l’ergastolo sia una punizione errata e controproducente si avvale anche di altre tesi. Una nazione deve puntare al recupero civile del carcerato poiché, secondo lo stesso ragionamento condotto dal governo norvegese, bisogna combattere la violenza con umanità, aiuto, sostegno e non con altra violenza, spesso impiegata nelle carceri. In Norvegia ad esempio, si porta avanti nelle prigioni, ormai dall’ultimo decennio del secolo scorso, un programma volto a formare cittadini civili, perché si parte dal presupposto che i detenuti usciranno dal carcere, diventeranno membri della comunità e dovranno relazionarsi con gli altri abitanti.

Dati questi presupposti nel marzo 2010 è stato inaugurato in Norvegia, precisamente ad Halden, un nuovo modello di carcere in cui i reclusi vivono in un luogo da molti giudicato di lusso e senza troppe restrizioni, infatti essi possono uscire dalle loro celle per svolgere varie attività, come pescare, passeggiare nella foresta, ovviamente recintata, oppure studiare. Le strutture carcerarie sono assolutamente confortevoli poiché tutto il complesso, dai colori utilizzati ai materiali impiegati, è stato studiato appositamente per infondere nei carcerati un senso di benessere. I prigionieri sono anche aiutati per il reinserimento post-reclusione, infatti una volta usciti, ognuno di loro sarà già in possesso di una casa e di un contratto di lavoro.

Questa attenzione per il futuro del singolo si inserisce in una visione più ampia che il governo norvegese ha nei confronti della prigione stessa. Essi sostengono che la violenza non potrà mai essere combattuta con altra violenza. È come un genitore che di fronte al proprio figlio si mostra irascibile, aggressivo ed intransigente durante i vari step della vita, gli insegnerà a reagire allo stesso modo. Nella maggior parte dei casi, lo stesso principio si attua nelle carceri. Nel momento in cui un individuo viene imprigionato, è quasi sempre probabile che si troverà davanti una realtà non tanto migliore di quella che l’ha portato a commettere tale crimine. Essi vengono trattati dai carcerieri con diffidenza, sospetto e indifferenza e così non si fa altro che accrescere l’odio e il risentimento che cova dentro ciascuno.

Essere condannati all’ergastolo vuol dire avere le manette a vita, il pensiero del suicidio è costante di giorno e di notte; per il colpevole non c’è più la possibilità di intraprendere un percorso riabilitativo per un futuro reintegro nella società, perché tanto non potrà mai più farne parte. In questo caso ci si dimentica della funzione rieducativa del carcere, a che serve rieducare se tanto l’unica speranza che si ha lì dentro è che la morte arrivi velocemente? L’uomo ha raggiunto livelli evolutivi straordinari, eppure sembra che il livello delle condizioni delle prigioni non possa più migliorare. Dostoevskij diceva «il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni», per avere una società civile è necessario che si dia a tutti la possibilità di raggiungere un certo grado di civilizzazione, compresi coloro che sono condannati alla pena più severa. Non si combattono la violenza e la criminalità intimorendo i cittadini con lo spettro dell’ergastolo. È stato scientificamente provato che la quantità di reati è la stessa nonostante ci sia la possibilità di essere condannati alla pena più severa. A cosa serve dunque avere tolto la pena capitale, lasciando però le condanne a vita?

 

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