Come l’arte racconta Pandora e il Vaso che la condannò in eterno

Pandora fu la prima donna creata da Zeus con un intento vendicativo, sapientemente celato dietro un magico scrigno. Il dono infausto è però anche contenitore della Speranza, l’unica che potrebbe risollevare le sorti dell’umanità e di una donna, maledetta fin dalla sua creazione.

José Ramon Zaragoza Fernandez, Prometeo y el Fuego

La storia di Pandora è intrecciata sin dalle origini con il destino dell’umanità. Tutto cominciò quando Prometeo rubò il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini e ne scatenò l’ira. Prometeo era un Titano dall’indole benigna, che sperava di poter ribaltare positivamente le sorti degli esseri umani con tale dono. Prima di lui gli uomini ignoravano i benefici domestici del fuoco, così come le scienze. La loro più grande infelicità era l’ignoranza, persa in una dedizione completa alla religione. Zeus non condivideva tale pensiero, e pensava che i nuovi insegnamenti potessero allontanare l’uomo dalla religione, pertanto ordinò a Efesto, dio del fuoco e fabbro degli dèi, di forgiare una bellissima figura femminile: Pandora, colei incaricata di portare un dono vendicativo. La vendetta di Zeus è argomento di due opere del poeta greco Esiodo: Teogonia e Le opere e i giorni. Pandora diventa così simbolo nella cultura ellenica come la prima donna mai esistita, sfruttata dalla volontà di Zeus per diffondere sofferenza e devastazione. Le parole di Zeus furono:

«Essi riceveranno da me, in cambio del fuoco, un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia».

E così il loro destino fatale è nelle mani di una graziosa fanciulla, incoronata dalle virtù regalate dalle divinità. Afrodite le donò la bellezza, Apollo la passione per la musica, Hermes l’astuzia e la curiosità e Atena le vesti. Nessuno, vedendola, avrebbe mai potuto immaginarla come portatrice di sventure.

John William Waterhouse, Pandora (1896)

La prima ignara vittima della furia vendicativa di Zeus fu Epitemeo, il fratello di Prometeo. Il suo nome significa “colui che si accorge in ritardo” e non poteva esserci espressione più adatta per accompagnare gli eventi futuri che lo contraddistinsero. Zeus gli presentò Pandora e con lei comparve un dono, un vaso dalla natura misteriosa. Mentre Epitemeo era indifferente al regalo, che nascose sin da subito, Pandora non riusciva a celare dietro il candore e l’innocenza fanciullesca, un’insidiosa curiosità. Fu la sua indole innata a spingerla alla ricerca del baule in cui era nascosto il vaso. Il pittore preraffaellita John William Waterhouse coglie il fatidico momento nella sua opera Pandora del 1896. Uno scenario dai colori tetri e dall’aspetto selvaggio e primitivo accoglie la fanciulla, che, con i suoi abiti eleganti e i modi delicati, illumina l’ambiente circostante. Ma il vero protagonista del dipinto è lo scrigno dorato, sede di tutti i mali del mondo, pronti a essere liberati da Pandora. Vengono così alla luce la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia e il vizio. Ma rimane incatenata al fondo la Speranza, destinata a risollevare le sorti dell’umanità dopo l’infausto dono e da qui nominata come “l’ultima a morire”.

Sir Lawrence Alma Tadema, Pandora (1881)

Nella rappresentazione che ne dà il pittore romantico Sir Lawrence Alma-Tadema, lo scrigno è decorato con una Sfinge, a cui l’egittologo Henry Fischer attribuisce la forza connettiva tra il mondo degli dèi e il mondo degli uomini. Al tempo stesso la Sfinge nasce come creatura antropomorfa, una fusione di elementi diversi, così come Pandora nasce dall’unione di differenti virtù attribuite dagli dei. Sir Lawrence le conferisce un ritratto da fiaba, accostandola all’immagine della Sirenetta di Handersen, che osserva ammaliata il suo ultimo tesoro trovato in fondo al mare. L’artista riesce a coglierne perfettamente lo sguardo ipnotico e incantato un momento prima dell’evento drammatico. Assimila la donna a una figura tra il divino e il mitologico e le conferisce un ulteriore tocco seducente donandole i capelli rossi, così amati dal suo contemporaneo Dante Gabriel Rossetti.

Dante Gabriel Rossetti, Pandora (1871)

Rossetti dipinge Pandora nel 1879 come una figura angelica, su uno sfondo da cartolina sacra dove il celeste e l’oro si intrecciano in un’atmosfera romantica. Lo sguardo ritrae una donna più matura e consapevole del gesto che si appresta a compiere. Non c’è più traccia dell’impudente curiosità da bambina, ma una presa di coscienza. La leggiadra inconsapevolezza degli uomini, ignari delle conseguenze delle loro azioni lascia spazio a un’acquisizione di responsabilità per ogni scelta presa. È un cambiamento radicale, che si riflette sul volto di Pandora, trasfigurato nell’opera di Rossetti da quello di una fanciulla a quello di una donna. Pandora si dota così di due volti che la contraddistinguono nelle rappresentazioni pittoriche e che riflettono la natura duale dello scrigno. All’esterno la brillantezza dorata del vaso è rappresentazione delle virtù che Zeus ha infuso in Pandora per renderla affascinante agli occhi degli uomini. Al tempo stesso, però, l’atmosfera cupa che rievoca John William Waterhouse nella sua opera è spettro delle insidie che nasconde il vaso. Così come Eva nella cultura cristiana, anche Pandora deve addossarsi inconsapevolmente tutte le colpe degli uomini, dietro lo sguardo innocente di una creatura ignara del suo destino.  La sua storia è all’origine della metafora del “Vaso di Pandora”, per cui un’azione apparentemente innocua può influire negativamente sul destino di molte persone.

 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.