Il (falso) mito della razza umana

Ottant’anni fa, nel 1938, in Italia venivano promulgate le leggi razziali, una serie di provvedimenti e ordinanze a difesa della purezza della razza italiana. Si trattava di un manifesto firmato da 10 scienziati italiani che sostenevano il concetto biologico di razza ariana e della necessità di difendere la purezza dalle contaminazioni con razze semitiche e principalmente con quella ebraica. Sposandosi con l’ideologia, e sull’esempio della Germania, la discriminazione basata su un falso mito della razza condusse l’Europa direttamente all’Olocausto.

Nei secoli precedenti all’era contemporanea vi furono molteplici tentativi di definire una classificazione della razza umana. A partire da Linneo nel 1735 , padre col suo Systema naturae della classificazione scientifica e gerarchica di specie, genere, famiglia, ordine e classe, iniziarono le classificazioni tassonomiche del genere umano. Fu poi George Louis Leclerc conte di Buffon a Parigi nella seconda metà del Settecento. Illuminista e anticipatore del pensiero evoluzionista, propose nella sua Historie de l’homme del 1749 una prima ipotesi di tipo morfologico sull’origine e differenziazione delle razze. Si trattava di una classificazione basata sull’antropometria come misurazione delle caratteristiche biologiche e somatiche dei corpi. Successivamente, durante tutto l’Ottocento, prenderà piede questa ossessione antropologica, anche con le sue clamorose falsificazioni, nel tentativo esasperato di giustificare una classificazione delle razze umane. Con essa, nacque il nefasto concetto ideologico di superiorità culturale della razza bianca europea rispetto alle altre. Sarà Johann Friedrich Blumenbach nel 1775 a sostenere una prima distinzione antropologica della specie umana divisa in cinque razze: la caucasica, la mongolica, la etiopica, l’americana e la malese. Il presupposto pone la razza bianca (caucasica) come origine delle successive “degenerazioni”.

Occorrerà aspettare Charles Darwin e la sua pubblicazione de L’origine dell’uomo del 1871 per avere la prima conferma che esiste una sola e unica specie umana e per rendere irrilevanti le presunte differenze tra razze. Per Darwin, la variabilità tra gli esser umani esisteva solo come frutto di una selezione sessuale dovuta a un’evoluzione biologica e non naturale. Si trattava del primo contributo scientifico e di un vero manifesto antirazziale a sostegno dell’inesistenza delle differenti razze umane. La strada tracciata da Darwin portò, infatti, dal concetto di creazionismo e fissismo della specie allo sviluppo del pensiero evoluzionistico. È proprio sul concetto di variabilità e adattamento che ha inizio la lenta regressione dell’errore biologico della classificazione delle razze, non sostenuta da alcuna prova ma basata su ipotesi tassonomiche o morfologiche, frutto di inesattezze metodologiche.

Tuttavia, l’ostinazione antropologica di una classificazione spinse i nuovi antropologi ad elaborare strumenti di base scientifica sempre più sofisticati. L’obiettivo è considerare il concetto di razza biologica umana come scala crescente di primitivo-evoluto che poneva al suo culmine la civiltà dei popoli occidentali. Dal sistema naturale di Joseph Deniker che nel 1900 suddivise l’umanità in sei gruppi e ventinove razze, si arrivò fino all’imponente struttura razziologica dei gruppi umani elaborata da Renato Biasutti nel 1941. Nei suoi quattro volumi dell’opera Le razze e i popoli della terra, Biasutti identificò cinquantatré tipi di razze umane. Il suo lavoro basato, su ipotesi prive di fondamenta oggettive, alla fine contribuì più allo sgretolamento dello stesso concetto di razza che alla sua affermazione.

Lo sviluppo di categorie razziali di comparazione degli individui sono basate sulle caratteristiche corporee come la misura, il colore e la forma, intrise di dottrine razziste ed ideologiche, alimentate prima dal colonialismo e successivamente dai regimi totalitari. Hanno continuato a proliferare fino al definitivo spartiacque della genetica: una nuova disciplina scientifica nata agli inizi del Novecento.

Infatti, è col successivo contributo determinante di un genetista come Luigi Luca Cavalli-Sforza, che si è finalmente smascherato il mito della razza. A lui va il merito di avere dimostrato sperimentalmente e matematicamente che le razze umane non esistono. Per arrivare a questo risultato il principale cambiamento fu rappresentato dall’identificazione di una nuova classe di caratteri, i marcatori genetici e sanguigni in sostituzione di quelli anatomici e morfologici. Messi in relazione tra di loro, attraverso l’analisi matematica e statistica, portarono alla nascita della genetica di popolazione sviluppatasi tra gli anni ʼ30 e ʼ50 del Novecento. Il punto di arrivo di questa nuova metodologia fu, appunto, lo studio di Cavalli-Sforza all’inizio degli anni Sessanta come primo esperimento scientifico di dimostrazione della grande eterogeneità genetica degli individui della terra, qualunque sia stata la popolazione di origine. Tale esperimento, successivamente confermato alcuni anni più tardi dal biologo e genetista americano Richard Charles Lewontin, era basato su principi e metodi statistici di massima probabilità di analisi filogenetica che sono tuttora in uso.

Da questi studi risultò che gli alberi filogenetici dell’evoluzione umana indicavano una grande somiglianza genetica tra gli africani e gli europei, facendo crollare il concetto morfologico di fotometria del colore della pelle come distinzione antropologica delle presunte razze umane. Inoltre venne dimostrato che il 90% della variabilità genetica totale umana si trova distribuita all’interno di ciascuna popolazione e solo per il restante 10% differenzia tra di loro i gruppi umani. Questa quota di variazione interpopolazione, come sostenne Lewontin nel 1972, è comunque troppo modesta per determinare categorie separate tra loro dal punto di vista genetico come appunto le razze.

Sulla base di tale conferme si è sviluppata la nuova disciplina scientifica dell’antropologia molecolare con cui si è postulato l’origine recente e africana dell’Homo sapiens risalente a circa 200.000 anni fa, uscito dal continente africano per occupare prima l’Asia e poi l’Europa senza mescolarsi con altre specie ominidi più antiche poi estinte, come quella dell’uomo di Neanderthal in Europa e Homo erectus in Asia. Ed è proprio l’età così tanto giovane dell’uomo e la sua estrema mobilità la causa che ha impedito la suddivisione in più razze.

I dati di questa grande scoperta hanno di fatto dimostrato che la variabilità genetica tra due individui dello stesso tipo di popolazione è maggiore di quella tra due popolazioni molto estranee. Per esemplificare il concetto, secondo la genetica moderna esiste una maggiore probabilità di compatibilità, per un nostro trapianto di organi, con un nigeriano che rispetto ad un nostro vicino di casa.

Nonostante queste straordinarie scoperte abbiano di fatto abolito il concetto di razza come gruppo di individui che si possono riconoscere biologicamente diversi dagli altri, permane il concetto di razzismo e di alterità come diversità che si fonda sempre più spesso sull’aspetto culturale e sulle abitudini di pensiero. Si tratta dell’universo sociale dei pregiudizi che ci riporta direttamente alle origini della differenza culturale di una classificazione ingenua che esisteva tra Greci e Barbari.

Oggi il razzismo non si alimenta di dati scientifici ma vengono rafforzate identità razziali su basi arbitrarie simili a quelle che definiscono le caratteristiche dei segni zodiacali dell’oroscopo o di altri stereotipi culturali che richiamano concetti di superiorità o inferiorità fisica e intellettuale, senza tenere conto delle lezioni che ci ha dato la storia.

Forse, con lo sguardo contemporaneo che ci proietta sul pianeta, si può cogliere l’altissimo grado di sfumature individuali che presenta l’umanità, ponendoci su una linea di confine che separa noi dagli altri ma che introduce anche un nuovo concetto di frontiera come luogo di incontro e di confronto. Chiedersi chi siamo noi, da un punto di vista biologico e culturale, rende irrilevante il problema di una “razza immaginaria di appartenenza” ma rende rilevante il piano delle relazioni umane. L’ossessione della razza si può quindi trasformare in una ossessione identitaria connessa con l’alterità, in un processo storico che riconosce l’alterità di chi oggi esiste e sta realmente davanti a noi come  un elemento che nutre la nostra stessa identità.

Si tratta, quindi, di concepire un approccio e una visione che ci può mostrare che universalismi come il concetto e il mito della razza possono essere considerate antiche e inutili prospettive locali che hanno prevalso in un momento della storia e sono diventate universali solo dissimulando il processo storico. Nella diversità umana, invece, avviene il vero confronto con l’unicità. Questo può farci comprendere che il razzismo, come concetto universale, fa riferimento solo all’idea di esclusione dell’altro e delle sue potenzialità e possibilità, che sono state negate per qualcosa che ha prevalso solo nella cultura e nei comportamenti umani. Lo stesso esempio può valere anche per la società monogamica che è sicuramente una scelta originaria divenuta prevalente e a cui si è associato il vincolo di giusto e universale, per cui si disposti a combattere contro il “diverso”, fuori dalla ragione e fuori dalla natura. Potenzialmente, nulla avrebbe impedito infatti una scelta universale di una diversa società basata su un tipo di poligamia di qualunque genere.

In questo contesto può essere compreso, ma non giustificato, il razzismo. Smentito in modo analitico, biologicamente e antropologicamente, continua purtroppo ad esistere se non a livello scientifico, poiché indimostrabile, a livello culturale e sociale. È quindi attraverso il concetto di riconoscimento e accettazione dell’altro che può essere salvata l’identità di soggetti che esistono in quanto socialmente riconosciuti, non soltanto in modo giuridico ma soprattutto in chiave dialogica e come esistenze che permangono al nostro confronto.

Fonti:

G. Biondi, O. Richard, L’errore della razza, Carocci, Roma 2011.

L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano, 1996.

L. L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia de geni umani, Adelphi, Milano,2000.

U. Fabietti, L’ identità etnica, Carocci, Roma, 2013.

F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Bari, 2010.

G. Barbujani, P. Cheli, Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza, Bari, 2008.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.