Quella di Flint era la ciurma più feroce dell’oceano. Il diavolo in persona non sarebbe andato per mare con loro!
È di quella temibile ciurma che narra la serie tv Black Sails, prequel del famoso romanzo di Robert Louis Stevenson. Dello spietato capitano Flint e della sua nave Walrus; dell’origine del mitico tesoro e di come il giovane Silver divenne Long John. Della storia prima che fosse leggenda.
New Providence, 1715. Epoca d’oro della pirateria, lo splendore prima del crollo. L’ex colonia inglese di Nassau è il più grande covo di corsari e filibustieri di tutte le Indie Occidentali. James Flint (Toby Stephens), pirata dal passato misterioso e capitano della Walrus, si mette sulle tracce della nave spagnola Urca de Lima e del suo immenso bottino. Ma eventi di portata ben più vasta si profilano all’orizzonte, uno scontro destinato a cambiare per sempre la storia.
Flint, che nell’Isola del Tesoro compariva solo nelle rievocazioni di chi l’aveva conosciuto, in Black Sails è invece uno dei protagonisti assoluti, ma non l’unico. Dei tanti personaggi, alcuni sono ripresi dal romanzo dello scrittore scozzese. Anzitutto John Silver (Luke Arnold), di cui viene raccontata l’evoluzione da pavido cuoco di bordo a temuto pirata, e poi Billy Bones, Ben Gunn, Israel Hands; altri si richiamano a figure storiche di pirati realmente esistiti: Charles Vane (Zach McGowan), Jack Rackham (Toby Schmitz) e Anne Bonny (Clara Paget); altri ancora sono stati creati appositamente per l’occasione. Ne risulta un meccanismo composito e complesso che funziona alla perfezione, come un ingranaggio ben oliato in cui ogni parte si incastra con le altre.
Lo stesso schema ritorna a livello di storia, perché Black Sails è sia prequel che serie a sé stante. Abbondano i riferimenti all’Isola del Tesoro che gli appassionati lettori potranno cogliere: rimandi, allusioni, easter eggs solidificano il senso di continuità tra show e romanzo, soprattutto nelle puntate finali della quarta e ultima stagione. Ma la serie è anche un prodotto indipendente di altissima qualità, una delle migliori degli ultimi anni, che si fa apprezzare al di là del collegamento con Stevenson. Battaglie navali e arrembaggi, intrighi e tradimenti, amori e rivalità, gli ingredienti per intrattenere lo spettatore non mancano. A questi si aggiunge un cast impeccabile, con doverose menzioni d’onore per Stephens e Arnold: i loro ritratti di Flint e Silver sono profondi e viscerali, dotati di una gravitas drammatica non comune. Completano il quadro le scenografie mozzafiato (grazie alle location sudafricane), effetti speciali all’altezza, e una sceneggiatura che dà il meglio di sé nei monologhi dei protagonisti, densi, potenti, appassionati.
La trama parte come classica caccia al tesoro, ma si sviluppa nelle stagioni successive in direzioni duplici e inaspettate: da un lato grande attenzione è riservata agli aspetti intimi e personali dei protagonisti e ai loro archi narrativi; dall’altro la scala degli eventi si allarga a dismisura, andando a intersecarsi con la Storia vera, quella con la S maiuscola. Lo scontro tra pirati e potenze coloniali europee diventa scontro di civiltà e di ideali, di contrapposte visioni del mondo che collidono tra loro al tramonto di un’epoca. La presenza di temi importanti – riscatto contro gli oppressori, apertura verso il diverso, lotta per la libertà e ricerca dell’uguaglianza – aggiungono le decisive pennellate di colore a quella che non è una semplice serie d’azione e avventura, ma un vibrante affresco storico che non teme di affrontare profonde riflessioni di valenza tutt’oggi attuale, come ben esemplifica questo monologo di Flint sulla paura e la demonizzazione di ciò che non si conosce:
Dipingono il mondo con le ombre e poi dicono ai loro figli di stare vicino alla luce. La loro luce. Le loro ragioni, i loro giudizi. Perché nell’oscurità ci sono i dragoni. Ma non è vero. Possiamo provare che non è vero. Nell’oscurità c’è scoperta, c’è possibilità, nell’oscurità c’è libertà, una volta che qualcuno la illumina.