I giovani e l’ansia. Fra psicologia e filosofia

Quando un termine specialistico discende nel linguaggio comune, va incontro a un duplice rischio: il significato ne viene distorto o tuttalpiù immiserito. È quindi molto facile che un vocabolo venga utilizzato in maniera impropria; è il caso, giustappunto, di termini mutuati dal linguaggio medico: depressione designa spesso l’indole malinconica, schizofrenia o isteria, invece, un temperamento collerico. Questo genere di fenomeno conduce non solamente a rievocare erroneamente un concetto, ma induce a sottostimare la serietà dei disturbi psichici. Un lemma, però, domina su tutti: ansia. Intercalato senza misura in special modo presso i giovani, i quali accusano in qualsiasi circostanza questo indefinito stato psicologico di cui, forse, non viene afferrato correttamente il significato. Dunque in cosa consiste?

L’ansia è tra gli stati psicologici maggiormente diffusi. Il termine, divenuto ormai idiomatico, viene comunemente associato a uno stato transitorio di agitazione, lo stesso che ciascuno prova più volte nel corso della propria vita. Mentre l’ansia, nel suo significato autentico, è un disturbo psichico consistente in uno stato perenne di allarme caratterizzato da una sensazione generale di pericolo, cui si accompagna un’intensa risposta fisiologica (quali aumento delle palpitazioni, sudorazione, respiro affannoso e comportamenti ossessivi).

Quando l’ansia evolve in forme più intense, assume il nome di angoscia (dal latino àngere, stringere; radice condivisa, come anche il significato, col termine ‘ansia’) e di panico, stati, questi ultimi, in cui la capacità di autocontrollo è completamente avvilita da violenti accessi di inquietudine. Differentemente dalla paura, che rappresenta la risposta immediata e coerente (riflesso) a un pericolo esterno, l’ansia sorge a seguito di un evento spiacevole che condiziona il comportamento dell’individuo indipendentemente dal fatto che si ripresentino circostanze analoghe a quelle in cui ha avuto luogo il trauma. Il soggetto ansioso paventa in ogni momento una minaccia incombente; il pericolo diviene un presupposto che declina sempre in negativo l’anticipazione potenziale, ossia la capacità di orientare un’azione sulla base dei possibili effetti. In parole povere, il disturbo d’ansia non è connesso a un pericolo specifico, ma piuttosto a uno possibile.

Non si può non constatare con perplessità che, in un’epoca in cui la figura di Sigmund Freud è stata consacrata, si faccia un uso spesso inappropriato dei termini attinenti alla psicoanalisi. Sebbene il quadro generico esposto poco sopra sia la sintesi degli studi inaugurati da Freud, egli ebbe il merito d’aver sottoposto l’ansia all’attenzione della comunità scientifica, ma la materia non era estranea all’Europa del XIX secolo. Figura tra le più rappresentative del Romanticismo fu il filosofo e teologo Søren Kierkegaard, troppo inadeguato per appiattirsi sullo sfondo della sua epoca e sorprendentemente attuale per poterlo accogliere con disinvoltura. Solamente una personalità perdutamente romantica, complessa, dalle tinte stravaganti e fosche al tempo stesso, quale fu Kierkegaard, potè operare un’analisi così penetrante del tema dell’angoscia.

Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855)

Mentre nella mitteleuropa l’interesse per la causa esistenziale intersecava ragioni politiche e sociali – assumendo il nome di Comunismo – la fine sensibilità di Kierkegaard toccò le corde più profonde dell’individualità come unicità dotata di un valore nettamente superiore a quello della moltitudine (gettando così le basi dell’Esistenzialismo). La spina dorsale della riflessione kierkegaardiana è la drammatica vulnerabilità dell’esistenza, tesa fra i poli del bene e del male, che la volontà desidera sempre avvicinare, ma che l’ignoranza impedisce di distinguere. Diviene chiaro, dunque, che la scelta rappresenta la pietra angolare del pensiero del filosofo danese, per il quale la fede è la via prediletta su cui indirizzare la vita. Il contraltare del modello religioso è la vita estetica, in cui il rischio della cristallizzazione viene illusoriamente superato con la ripetizione (coincidenza di passato e futuro) senza soluzione di continuità.

Testimonianza lampante dello spirito con cui Kierkegaard penetra in profondità nel tormento esistenziale è rappresentata dal dittico delle opere Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849). Ne Il concetto dell’angoscia Kierkegaard riconduce l’origine della condizione umana nientemeno che al peccato adamitico. Benché la lettura in chiave religiosa risulti più fumosa rispetto all’approccio scientifico della psicanalisi, è impossibile non notare la spiazzante esattezza con cui Kierkegaard colse l’essenza di questioni che la teoria freudiana avrebbe analizzato (e confermato) mezzo secolo più tardi.

L’episodio chiamato in causa dal filosofo è quello del peccato originale: la disobbedienza dei progenitori al comando divino di non attingere il frutto della conoscenza del bene e del male aprì uno squarcio sull’infinito panorama della possibilità, di fronte al quale l’individuo moderno prova ancora un senso di vertigine.

<<L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso; perché deve guardarvi. L’angoscia è, appunto, la vertigine della libertà.>>

Così la stirpe umana, schiacciata dal peso insopportabile della libertà, precipitò nel mondo della contingenza, della caducità e dell’incertezza. L’aspetto più imprevedibile della condizione libera è la compresenza di alternative contrastanti che, però, non si annullano reciprocamente: il bene e il male non si escludono, la possibilità è la dimensione in cui il tutto e il niente si sovrappongono. Adamo ed Eva ignoravano, nella loro innocenza, le conseguenze delle azioni e le innumerevoli alternative che si aprono dinanzi a una volontà libera. Compiuto il misfatto, l’angoscia si affacciò sulla culla dell’umanità, condannata a consumarsi nel maleficio del dubbio. È dunque evidente che, nell’angoscia, la volontà si confronta continuamente con la minaccia del pericolo, dell’errore, dell’assenza di garanzie.

Lucas Cranach il Vecchio, Adamo ed Eva, Olio su legno (1526)

Che il concetto dell’ansia (o dell’angoscia) venga così spesso scomodato è indice non solo di un utilizzo disattento delle parole, ma soprattutto del clima in cui si inseriscono i disturbi psichici, diviso tra la sensibilizzazione e la disinformazione. Dopo che Psycho, nel 1960, lanciò il guanto di sfida alla censura che vigeva sulla settima arte – per quanto concerne le scelte artistiche ma soprattutto per il soggetto trattato – la curiosità suscitata nel pubblico cedette il passo alla mitizzazione. Diciotto anni più tardi, il progetto d’integrazione propugnato dalla Legge Basaglia (legge n.180 del 13 Maggio 1978), andò incontro al diffuso atteggiamento di dissenso, in cui tuttavia non si è fatto a meno di ricamare sulle teorie psicanalitiche. Le arti hanno infatti proseguito a frequentare con insistenza sempre maggiore il terreno della psicologia, ma coltivano un’esaltazione (non di rado scientificamente inesatta) della materia, che talora sconfina in scenari improbabili.

È importante difendere i concetti di ansia e angoscia dal destino del linguaggio inflazionato (tipicamente giovanile): Kierkegaard ha saputo individuare la crucialità del momento in cui la volontà viene consegnata nelle mani dell’individuo, momento che interessa soprattutto i giovani alle prese con la scelta del proprio futuro. Non è una colpa travisare inavvertitamente il significato di un termine, ma abusarne ha le sue controindicazioni: la frantumazione di una parola pronunciata ripetutamente non è una mera impressione. Come insegna Nanni Moretti: “Le parole sono importanti”.

 

 

 

 

 

 

 

FONTI

Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Biblioteca Ideale Tascabile, 1995

Damour / J. Hansell, Psicologia clinica, Zanichelli, 2007

IMMAGINI

Copertina [C.D. Friedrich – Monaco in riva al mare (1808-1810, olio su tela), Alte Nationalgalerie]

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