Politica in musica, cOzzata o matrimonio?

La cronaca degli ultimi giorni suggerisce una riflessione sempre aperta sul ruolo della politica nella musica. Lo scorso 26 ottobre Roger Waters ha dimostrato ancora una volta quanto la sua figura di artista non sia fine solo a sé stessa: in occasione del suo concerto a Curibita, infatti, prima delle 22:00, Waters fa proiettare sul maxischermo un messaggio divenuto l’emblema dell’opposizione a Bolsonaro: “Ele Nao” (Lui No). Non è la prima volta che il fondatore dei Pink Floyd dice la sua in maniera teatrale, pubblica e rischiosa, facendo buon uso della sua posizione. il dubbio che spesso affligge, però è se questo possa veramente essere definito un “buon uso”. Di nuovo, l’estate scorsa Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam cantava una “Imagine” invitando il governo italiano a favorire una politica di accoglienza, piuttosto che la chiusura dei porti, ma venne accusato di uscire dal proprio ruolo trattando temi di non sua competenza. Non ci sono forse tematiche più importanti, piuttosto che qualche cinguettio sul web?

Innanzitutto ci sarebbe da pensare al perché un semplice ragazzo con una chitarra in mano diviene un artista di fama mondiale con un grandissimo seguito; sicuramente non c’è ombra di dubbio sul fatto che nomi come Eddie Vedder o lo stesso Roger Waters siano ineccepibili musicisti capaci di rendere 3 minuti e mezzo (o più) i più magici di sempre con le loro note, ma c’è di più: non si tratta solo di belle melodie ed incisi diventati leggenda, si tratta anche di poesia, parole giuste messe nel momento e nel posto migliore. Ed è ancora chiaro che i temi ricorrenti non sono solo i grandi classici che ruotano attorno all’amore, per quanto romantico e sempre attuale esso sia; di ancor più attuale c’è ciò che ci circonda ogni giorno, ciò che viviamo, alimentiamo, e troppo spesso subiamo: la politica. Oltretutto “politica” non è una parolaccia da censurare nelle versioni ufficiali, perché ogni qualvolta si scrive una “Janie’s got a gun“, Aerosmith (denuncia all’abuso sessuale); una “Blowing in the wind“, Bob Dylan (senza bisogno di alcuna descrizione), una “Bushleaguer”, Pearl Jam (commento al presidente Bush) o una “Dogs“, Pink Floyd (denuncia agli arrampicatori sociali) , allora si tratta di politica.

Constatato che il tema non è così ristretto e limitabile entro precisi confini possibili da evitare, a meno che non si canti di farfalle colorate e unicorni (fatto che susciterebbe un certo immaginario distopico non indifferente in una lettura politicizzata dei “lyrics”), cosa spinge effettivamente ad escludere esponenti di band colosso da determinate tematiche considerandole off limits per i “non addetti ai lavori”? Quale differenza c’è fra un cittadino comune che scrive un post su Facebook e un artista che usa le proprie canzoni (tra l’atro meravigliose) per marcare l’importanza del proprio pensiero? Di certo si nota un certo scarto qualitativo.

Ricordando inoltre che molto spesso gli “addetti ai lavori” si perdono nei meandri di articolate dialettiche diplomatiche, senza esprimere con chiarezza le cose come stanno, risulta semplice ed immediato invece ascoltare chi con chiarezza porta alla luce i concerti rivendicando diritti e principi. Specialmente quando l’informazione mainstream è oggi indubbiamente fortemente ed ovunque censurata, filtrata e di parte rendendo difficile creare una così una bilanciata ed informata opinione pubblica.

La posizione fisica dell’ uomo sul palco invece dà senza ombra di dubbio potere, l’attenzione del pubblico, la risonanza della propria voce. Sfruttarla nel migliore dei modi non deve essere solo un diritto, ma un dovere, quindi tutti gli artisti, che si trovano in una posizione così privilegiata quanto delicata, pericolosa quanto potenziale, non si devono limitare a cantare le proprie canzoni, per quanto ricche di messaggi importanti. Le loro idee devono essere scritte a caratteri cubitali, come su un maxischermo a due minuti dal limite legale per la discussione politica: “Resistiamo al fascismo“.

 

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