13th, quando le carceri statunitensi sono popolate soprattutto da neri

Cosa sappiamo noi Italiani del funzionamento del sistema carcerario americano? Pochissimo, se escludiamo quanto ci mostra il telefilm Orange is the new black, che racconta i dissidi tra le prigioniere di un carcere femminile e l’azienda privata che gestisce l’istituto penitenziario. E’ tuttavia difficile distinguere la realtà dalla finzione, soprattutto perché molte delle avventure affrontate da Piper e le sue amiche sono alquanto improbabili.

La realtà che ci mostra il documentario Netflix 13th è molto più cruda e drammatica: gli Stati Uniti sono abitati dal 6% della popolazione mondiale e comprendono il 25% dei detenuti del pianeta, quasi tutti afroamericani. Il documentario è scandito dalle tappe di una lunga linea del tempo che inizia con la fine della schiavitù e arriva sino ai nostri giorni, mostrando come il numero dei carcerati aumenta vertiginosamente di anno in anno. Gli episodi sono intervallati dai ritornelli di alcune canzoni rap che raccontano la tragica condizione degli afroamericani ingiustamente incarcerati, le storie sono raccontate attraverso interviste di esperti e video storici dei telegiornali o film d’epoca.

Con la fine della schiavitù afroamericana, l’economia del paese, sino a poco prima fondata sullo sfruttamento dei neri, andava ricostruita. Siccome il tredicesimo emendamento della costituzione proibiva ogni forma di schiavitù eccetto quella cui possono essere sottoposti i criminali, si è pensato di trovare un astuto escamotage per incatenare la popolazione nera: la prigione. Complice il Ku Klux Klan quanto le istituzioni, si è diffuso lo stereotipo del negro stupratore, avido, violento e criminale, da temere, perseguire penalmente e rinchiudere. Era l’epoca della segregazione, dei pestaggi, dei linciaggi per strada ma anche delle esecuzioni sommarie da parte di una folla inferocita. Alcuni video agghiaccianti mostrano una realtà che turba profondamente lo spettatore, proponendo scene di violenza che sembrano appartenere ad un mondo lontanissimo, eppure tutto ciò accadeva solo pochi decenni fa.

L’epoca di Nixon diventa più infida: non si parla apertamente di razzismo o di incarcerazione dei neri, però si parla di necessità di sicurezza e di lotta contro la droga, tutto ciò porta inevitabilmente ad un incremento dell’incarcerazione degli afroamericani e dei difensori dei loro diritti civili. Si consolida l’immagine del nero pericoloso, uno stereotipo che si diffonde anche presso la stessa comunità afroamericana. Le immagini ora sono a colori, tratte da vecchi telegiornali e meno violente, ma non per questo meno angoscianti: giovani neri ammanettati caricati sui furgoni della polizia, in attesa di lunghi anni di carcere per reati che non hanno commesso o per crimini minori. Sotto Regan, si diffonde la crak, una droga molto diffusa tra i neri. Il semplice possesso di questa sostanza è punito molto più severamente rispetto a quello della cocaina, ciò comporta un’incarcerazione di massa degli afroamericani.
“Tre colpi e sei fuori” significa che, dopo tre reati gravi, scatta autonomamente l’ergastolo; è questa la nuova politica statunitense. Si garantisce inoltre che un detenuto sconti sempre almeno l’85% della pena, senza ricevere premi per buona condotta o altro. Tutto ciò ha comportato un sovrappopolamento delle carceri americane, famiglie divise e padri che non hanno visto crescere i loro figli, anche per aver commesso un semplice reato minore.

Dopo Nixon e Regan in America è diventato quasi impossibile candidarsi alla presidenza senza proporre un giro di vite nei confronti dei criminali, un giovane nero su tre è destinato a finire in prigione almeno una volta nella sua vita e le percentuali non sono affatto migliorate perché il sistema carcerario è diventato un business gestito da aziende private, alle quali conviene che gli istituti penitenziari siano pieni. Lo scenario di Orange is the new black, in cui una compagnia cinica e spietata gioca con le vite delle detenute per trarne profitto, non è più una finzione drammatica ma la realtà dei fatti, con la sola distinzione che la popolazione carceraria non è equamente suddivisa tra tutte le etnie che vivono negli Stati Uniti, ma c’è una netta maggioranza di neri ed ispanici.

Dimenticatevi soprattutto le romantiche, bellissime e acculturate Piper ed Alex delle classi più agiate nel ruolo delle protagoniste, perché in America chi è ricco può facilmente uscire di prigione pagando la cauzione; sarebbe stato più corretto attribuire il ruolo di prima donna dietro le sbarre ad una sorella del ghetto. Un’altra violazione dei diritti umani è costituita dal patteggiamento: ai criminali colti in flagrante viene offerto di patteggiare ammettendo le proprie colpe, chi si rifiuta e accetta di essere processato rischia un inasprimento della pena; ne consegue che gli arrestati accettano di essere incriminati anche per i reati che non hanno commesso. Un giovane ragazzo ha rifiutato il patteggiamento perché era innocente e ha atteso il processo in prigione; si è tolto la vita qualche anno dopo aver ottenuto la libertà.

Un altro grave problema è il reinserimento degli ex detenuti nella società, in quanto sarà molto difficile per loro trovare lavoro, affittare una casa e, in generale, muoversi liberamente negli Stati Uniti con la fedina penale sporca.
Il documentario richiede una certa dose di attenzione perché tratta argomenti seri e complessi, inoltre turba profondamente lo spettatore per la crudezza dei temi trattati. Nonostante ciò, merita di essere visto perché tutti dovrebbero conoscere la tragica violazione dei diritti umani che è in corso negli Stati Uniti attraverso quella che può essere considerata una nuova forma di schiavitù.

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