Multiculturalismo dis-orientante

L’epoca presente si staglia sul panorama del cosmopolitismo che ambisce al progetto di una mondanità di più ampio respiro. Ciò che non è più un’idea, bensì una realtà, prende il nome di multiculturalismo, fenomeno che auspica la comunità dei popoli e il dialogo aperto e pacifico tra le culture.
Esso non mira alla semplice esplorazione dell’esotico, quanto piuttosto a preservare e porre armoniosamente in comunicazione tra loro le cosiddette etnie (ovvero sia tutte le espressioni del genere umano, coi rispettivi linguaggi, costumi e idee). Ma la solidarietà confligge col sospetto. Il sogno dell’intercultura viene più spesso avvertito come una minaccia, e suscita un atteggiamento di chiusura che scaturisce dal conglomerato di stereotipi e preconcetti che hanno sempre accompagnato la percezione dell’estraneità. Entrano quindi in contrasto posizioni diametralmente opposte, sintetizzate però da una terza alternativa.

Se nelle arti non sono rare le rappresentazioni ottenute ricorrendo a molteplici punti di vista, non è ugualmente semplice (con rispetto parlando per i grandi maestri) quando la materia in questione è l’intera umanità. Tentiamo, nondimeno, di tracciare un quadro attuale costruendolo a partire da tre diversi punti di osservazione.

Il primo è, appunto, il fascino per la diversità, l’avventura della globalizzazione.

Nel medesimo ordine di idee rientra lo stereotipo che, nel pensiero comune, associa la minaccia della diversità alla “cacofonia” delle lingue straniere, dal quale l’ipocrisia salva certuni sistemi di scrittura, molto apprezzati per tatuare elegantemente un nome (o una perla di saggezza) su un arto europeo.

Il secondo punto di vista è invece lo sciovinismo, il rifiuto aprioristico e granitico della sedicente cultura globale, che inneggia alla difesa orgogliosa della cultura di appartenenza da qualsiasi ingerenza.

I punti precedenti evolvono nel terzo: il mimetismo, il rovescio ipocrita del multiculturalismo. La curiosità si trasforma, insomma, in esterofilia che è, in fondo, assimilazione impropria dei tratti culturali di un’altra etnia (che dunque non prevede la comprensione), al fine di celare l’assoggettamento della diversità al proprio modello. È necessario evidenziare, per meglio comprendere la contraddittorietà dell’atteggiamento, la sottile differenza tra multietnicità e multiculturalismo. Il primo scenario non è propriamente integrativo, in quanto ammette semplicemente la compresenza di più ordini culturali in un medesimo contesto. Si tratta quindi di una concessione; il multiculturalismo richiede previamente un atto di rinuncia all’esclusività della propria identità.
Il costrutto immaginifico che corre sotto il nome di integrazione consiste in una fagocitagione a catena di poli culturali, i cui risultati più evidenti possono individuarsi nell’Americanismo e nel Giapponismo. Fenomeno di idrolatria da una parte, di consumo scarsamente consapevole dall’altra; parabola che ascende fino all’emulazione e scade nella moda. Giacché il primo caso rischierebbe di incorrere in polemiche che non competono a questa sede, il primo farà da punto di slancio per mettere a nudo la contraddittorietà del fenomeno.

L’Europa ha attecchito rapidamente all’influsso di un Oriente “spurio”, fatto di metropoli d’acciaio in cui si vagheggiano occhi rotondissimi. Cedere al fascino del Sol Levante non ha, oggi, lo stesso valore di quando la prima ondata di orientalismo investì l’Europa nel tardo XIX secolo (sebbene le contraddizioni e i preconcetti fossero, allora come oggi, consolidati). Integrare un complesso culturale permette di assorbirne i tratti apparentemente meno complessi (e che non attridano con il contesto di accoglienza) e di circoscriverne lo spazio di manovra. Sembra quindi un compromesso accattivante poter accogliere un’intera cultura stringendola fra due bacchette e ingerirla in pratiche portate a prezzo fisso. Di contro, l’accondiscendenza con cui le alte sfere della finanza stringono rapporti con le multinazionali asiatiche non è concessa ai flussi migratori che, sebbene motivati da emergenze umanitarie, vengono accolti come un’incursione piuttosto che come un contributo. Frattanto i luoghi comuni propagano l’urto dei monoliti di ordini culturali considerati dominanti. Dai paesi vessati dalle guerre approdano fantasmi costretti a soggiacere a strategie conformistiche attuate a livello planetario, mascherate da una solidarietà artificiosa che si declina al contempo come comunione a una cultura dominante e subordinazione di culture giudicate inferiori.
L’essenza stessa del mimetismo non implica quindi l’interazione tra una moltitudine di identità, bensì la confluizione delle stesse nel progetto del “cittadino mondiale”, quindi di un’universalità da intendersi nel senso etimologico, cioé di direzione verso un unico punto di fuga. Il multiculturalismo così inteso non preserva, bensì assoggetta, le peculiarità delle culture che abitano il mondo.

L’inefficacia del messaggio multiculturale non è stata superata né dal progetto dell’unificazione dell’Europa sotto la stessa bandiera e lo stesso conio, né con l’utilizzo inflazionato dell’Inglese (idioma tradito dalla sua praticità). Perché si possa approdare a un disegno di collettività autentico, che cioè oltrepassi i confini del pregiudizio e dell’opportunismo, è necessario educare le nuove generazioni alla consapevolezza di una mondanità che non sia un sistema a compartimenti stagni. Bisogna, in parole povere, riconsiderare la ragion d’essere del fenomeno multiculturale: non l’identità, né tantomeno il mimetismo, ma la reciproca appartenenza.

FONTI

M. Murgia, Futuro interiore, Einaudi, 2016

Considerazioni del redattore

CREDITS

Copertina – H.Matisse, La danza (1910), olio su tela, Ermitage

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