Les fleurs du mal: visioni di sesso e morte in Charles Baudelaire

Nel 1857 esce la prima edizione della raccolta di liriche di Charles Baudelaire, Les fleurs du mal: un tripudio di lirica bruttezza, erotico grottesco e religione urbana.

Ma andiamo per gradi.

Secondo Edmund Burke (Inchiesta sul bello e sul sublime, 1757) la bellezza è un potente filtro sociale: grazie a essa l’amore non è più eros e si trasforma in contemplazione ispirata; il lust, la lussuria, la libidine, tutto ciò che l’estetica ha tolto al sentimento lo assume il dolore. Nella sua ricerca Burke si concentra a lungo sulle conseguenze fisiche del terrore (da lui indagato a lungo come centro delle passioni che dominano l’uomo), fino a sottolinearne il piacere (positivo) causato della tensione dei nervi. Al contrario dell’amore dunque, languore intenerito e malinconico, la violenza eccita, conduce corpo e mente alla tesa idea di una morte erotizzata fino a far confluire eros e thanatos in un vertiginoso nucleo.

Ma cosa ha a che fare Burke con Baudelaire? Esattamente un secolo separa i due, ma si tratta di un secolo in cui la bussola della storia cambia il suo nord: rivolgimenti culturali, sociali, filosofici e letterari lo caratterizzano. Burke (con queste e altre considerazioni) anticiperà la rivoluzione romantica, causando quel taglio, poi netto, con il classicismo.

La bellezza, la precisione, la perfezione, la proporzione, tutti gli elementi a cui il classicismo era devoto vivono, nell’Ottocento, solo in condizione del loro opposto: l’orrendo, il caos, l’imperfezione, la sproporzione. Ma la ricerca romantica, tutta tesa verso le grandi altezze o gli abissi dell’anima, verso il soprannaturale, gli spettri e la magia nera, finirà per annoiare Baudelaire, già figlio di un’altra modernità.

Les fleurs du mal vorranno estrapolare il bello (o meglio il sublime) proprio dal banale puzzo del quotidiano e faranno di Baudelaire il cantore dei sobborghi metropolitani di Parigi. In un mare di ossimori sinestetici, dove nulla esiste senza il suo opposto, Baudelaire gioca la carta dell’allegoria epifanica: il suo occhio visionario troverà mondi sconosciuti e altissimi proprio nello sguardo di un vagabondo, nella scollatura di una passante, nella bocca malata di una prostituta.

Un confronto tra le poesie Il vampiro e A una passante esplica sia la dinamica turbolenta della sessualità, tema ossessivo delle varie sezioni della raccolta, sia il rapporto del poeta con le donne, vissuto tra tormento, estasi e catarsi.

«Tu che t’insinuasti come una lama
Nel mio cuore gemente; tu che forte
Come un branco di demoni venisti
A fare folle e ornata, del mio spirito
Umiliato il tuo letto e il regno-infame
A cui, come il forzato alla catena,
Sono legato: come alla bottiglia
L’ubriacone; come alla carogna
I vermi; come al gioco l’ostinato
Giocatore – che sia maledetta.
Ho chiesto alla fulminea spada, allora,
Di conquistare la mia libertà;
E il veleno perfido ho pregato
Di soccorrer me vile. Ahimè, la spada
E il veleno, pieni di disprezzo,
M’han detto: “Non sei degno che alla tua
Schiavitù maledetta ti si tolga,
Imbecille! – una volta liberato
Dal suo dominio, per i nostri sforzi,
tu faresti rivivere il cadaver
del tuo vampiro, con i baci tuoi.»

Ne Il vampiro la donna è una femmina grottesca, una figura al limite con il surreale che gioca il suo ruolo di maga spietata; tuttavia proprio il dolore e la sofferenza da ella provocati sono gli elementi che vivificano il piacere del poeta. Baudelaire prende in prestito le immagini dello scenario gotico seicentesco ma le spoglia della loro ambiguità fantastica per innestarle nelle dinamiche basse e disilluse della vita di tutti i giorni. L’amore ha dunque recuperato l’eros, ma non senza l’ormai inevitabile bagaglio di morte e dolore con cui esso è stato contaminato negli anni: il gusto del satanico e dell’orrifico prende il sopravvento, l’amore e la bellezza sono un veleno: la maledizione eterna di un’erotica schiavitù. Il disgusto e il disprezzo si fondono con la schiacciante dipendenza da questa femme fatale (con tutta probabilità Jeanne Duval, attrice con cui Baudelaire visse una storia d’amore tormentata) di cui il poeta è vittima compiaciuta.

Ma è concesso dire che nella poesia A una passante Baudelaire sembra recuperare le dinamiche dantesche della donna angelo?

Attorno m’urlava, la strada assordante.
Alta, sottile, in lutto, nel dolor regale, una donna passò,
alzando con superba mano e agitando, la balza e
l’orlo della gonna; agile e nobile, con le gambe statuarie.

E io le bevevo, esaltato come un folle, nell’occhio,
cielo livido presago d’uragano,
dolcezza che incanta e piacere che dà morte.

Un lampo… poi la notte!
Bellezza fugace, il cui sguardo m’ha ridato vita a un tratto,
nell’eternità solamente potrò rivederti?

Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse!
Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada,
o te che avrei amato, o te che lo sapevi!

Da questi versi è chiaro che della Beatrice che conosceva Dante la passante di Baudelaire ha forse solo quell’eternità luttuosa e sconosciuta, ma nulla più; la sua figura si staglia su un sfondo non luminoso ma tetro, non salvifico ma di perdizione: lo sfondo caotico e urbano di Parigi. Non più femmina demoniaca certo, anzi la passante è ancor più bella per la sua misteriosa tristezza, ma il piacere che ella concede è qualcosa di pericoloso, che uccide. La sua visione è un lampo, apparizione che non fa che intensificare un senso di vuoto e di noia esistenziale connaturato nel poeta.

La donna e il suo sesso, dunque, insieme all’eros e alla promiscuità, esprimono in Baudelaire un insieme di sentimenti contrastanti che fanno della morte e della sofferenza il loro doppio.

 


FONTI
C. Baudelaire, I fiori del male, Milano, Mondadori, 1984.
E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, Palermo, Aesthetica, 2002.


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