I rituali della morte: Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman

Il settimo sigillo è un’opera sull’eresia, santità e l’accordo tra le due. Nel capolavoro del ’57, Bergman traccia le soglie minime della fede e carica la storia di una sterminata, ingombrante e capricciosa presenza: quella del peccato. Nella storia dell’anonimo Cavaliere, la morte e la vita si dipingono l’un l’altra tra di loro in un complesso e filosofico scambio di opinioni sulla fede e sul peccato. Tutto ciò è reale o ideale? In che parentela sono Dio e il Diavolo? Cosa mi dirà la vita della morte e cosa la morte della vita? In questi termini si svolge la più grande opera di Bergman, in cui si evidenziano alcune tra le più peculiari caratteristiche del cinema del regista, come la capacità di dipingere una pellicola che resti aperta a un eterno e meraviglioso dibattito, che dà luogo a quel gioco di meditazione che conserva l’aura dell’intento poetico. Il settimo sigillo è più grande di un’opera “perfetta”, poiché esso è “perfettamente adeguato”, è mutevole e policromo pur nella sua rigida aderenza ai concetti trattati. Ma meditiamo su qualche spunto che quest’eterna fatica artistica ci presenta.

«Chi sei tu?» chiede il Cavaliere alla Morte, che lo viene a trovare. «Sei venuto a prendermi?». Lo spirito del cavaliere è pronto, il suo corpo no. È così che le sue membra, bramose di scoperta e irrigidite sulla vita, scommettono loro stesse in un gioco come quello della Morte, che niente ha di spirituale: la fine è solo la chiassosa chiusura del durante. Così, per guadagnare tempo, il Cavaliere gioca a scacchi con il suo cupo avversario, vedendo fino a che punto il suo corpo può spingersi per aver salvo se stesso e tutto ciò che il pegno della vita corporea comporta.

Ma la Morte non va in ferie, e nei giorni della sfida col Cavaliere continua a mietere vittime sotto l’ombra della peste. Terribili scenari di tragedia raccontano visivamente un mondo in cui la quotidianità stenta a mantenere il suo sapore, la fede vacilla fino a rendersi eresia, le folle disperano davanti all’angoscia di un anonimo tributo pendente sulla loro (nonostante tutto!) solida rettezza d’animo. Ma il Cavaliere non si accontenta di soccombere a questo inspiegabile tormento: perché vivere una vita nella fede per poi ricevere una morte nel nulla? Queste sono le stesse passioni che attanagliavano Giobbe, quand’egli prese congedo da speranza e carità per spingersi ai limiti della bestemmia. Il Cavaliere vuole conoscere, non avere fede.

«Facciamo un idolo di ciò che ci intimorisce. Quell’isola è Dio.»

La conoscenza che il Cavaliere va cercando, e per la quale temporeggia col suo avversario, appare in un atto pieno di significato, in una luminosa chiarificazione del nulla disordinato e terribile. Il Cavaliere, nel giocare, si accorge che la Morte è un baro, che con infimi trucchetti svela le sue piste. Sono forse queste le sante vie della Mietitrice? A pensarci bene, il protagonista la Morte l’ha conosciuta in ogni suo carattere: egli è un crociato, ha assistito a massacri ingiustificati e preso parte a logiche solo apparentemente divine, logiche che al dunque avevano rivelato le più oscene fattezze delle brame carnali.

«La nostra crociata era così stupida che solo un idealista ha potuto inventarla.»

E chi sono questi idealisti? Uno di costoro è il prete incontrato dallo scudiero in una locanda, un uomo che, dal professare eterna gloria e santa salvezza mandando molti soldati a morire, si è poi convertito allo sciacallaggio sulle salme dei morti. Gli idealisti parlano di idee, e Dio è un’idea: è vivo solo nella cieca fede, non nella reale conoscenza. Se questa prospettiva è quella del pascaliano «salto della fede», è allo stesso tempo quella di una ben più triste presa di coscienza, che è il vero «atto pieno di significato» di cui il Cavaliere si fregia: la consapevolezza che Dio è sulla stessa via del Diavolo, della Morte. Dio è un mezzo della vita, usato per fini mortali, venerato per imbarazzo esistenziale. La disperazione e la lamentazione trovano spazio in un mondo tutelato dal Dio della Chiesa perché non c’è nessun livello superiore alla realtà che mette ordine ai disastri umani. Gli uomini sono vittime e mietitori solo di loro stessi. La Morte non fa che assecondare queste logiche, si approfitta di chi, guardando il Cielo, si dimentica dei tormenti che la sua impassibilità causa alla Terra degli uomini reali. L’essere umano è «ridicolo per chiunque: senza significato in Paradiso, indifferente all’Inferno».

Chi sopravvive, chi può essere felice in questo dramma? Chi non sottostà né a una fede nell’aldilà, né a una triste presa di coscienza del reale: una famigliola di teatranti, che non spera se non in quello che è semplice, presente, attuale e non rituale. Sono proprio questi, padre, madre e figlio, a non partecipare alla triste danza degli oppressi, sul finale del film. Il rituale ha spalancato le porte al nulla, alla devastazione, al pegno. L’amore della vita in quanto tale avrebbe evitato l’accanimento della Morte, che avrebbe lasciato correre nei boschi il Cavaliere in compagnia dei teatranti. Ma la croce che gli fu cucita sulla schiena, da cui la spada prese la forma e di cui la corazza fu decorata, è per il protagonista la patente di una condanna ai riti, alla vaghezza e alla trascendenza di Dio, che gioca a scacchi coi suoi figli quando questi si dimenticano di vivere. La Morte non ha segreti, perché non c’è conoscenza nel morire: solo fievole speranza, fede velenosa, che rinnega la vita in quanto tale.

 


FONTI

Il settimo sigillo, Ingmar Bergman, 1957

 

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