Donne di lettere: pseudonimi e gynobibliofobia

«“Professione?”
“Scrittrice,” dissi.
“Casalinga,” disse lei.
“Scrittrice,” ripetei io.
“Scriverò casalinga,” replicò lei.»*

S. Jackson, Life among savages

Da Louisa May Alcott a J. K. Rowling, senza dimenticare le sorelle Brontë e Mary Shelley, firmare le proprie opere con un nome maschile, ambiguo o persino in modo anonimo, per avere più “autorevolezza” e, apparentemente, vendere di più è stata una pratica diffusa per lunghissimo tempo nella storia della letteratura. Moltissime autrici sono state costrette o consigliate dai loro editori di cambiare identità (ma soprattutto genere) pur di vedere pubblicato il proprio romanzo.

Mary Shelley

Oggigiorno, complici anche numerose trasposizioni cinematografiche del romanzo e della sua vita, Frankenstein o il moderno Prometeo è universalmente noto per essere un romanzo gotico di Mary Shelley. Ma al momento della sua pubblicazione, nel 1818, uscì in maniera anonima e solo per la seconda edizione del 1831 fu rivelata l’identità dell’autrice che non mancò di destare molto scalpore, tanto che la critica del tempo affermò che «per un uomo è eccellente ma per una donna è straordinario».

Nell’Ottocento – e non solo, come si vedrà – i pregiudizi nei confronti delle autrici erano molto diffusi; nel 1847 per esempio, Jane Eyre, uno dei più famosi romanzi di formazione della letteratura inglese, fu pubblicato sotto lo pseudonimo di Currier Bell e la stessa sorte la subì, nello stesso anno, Cime Tempestose, che riportava il nome de plume di Ellis Bell. È interessante notare come le tre sorelle, pur assumendo nuovi nomi, mantenessero – magra consolazione – perlomeno le proprie iniziali: Currier Bell per Charlotte, Ellis Bell per Emily e Action Bell per Anne Brontë.

Potrebbe far quasi sorridere pensare che due dei più celebrati autori dell’Inghilterra vittoriana – Currier Bell e George Eliot – fossero in realtà due donne; come Charlotte Brontë, anche Mary Anne Evans dovette assumere una seconda identità per potersi affermare come una delle penne più importanti della sua epoca.  Evans attese che i suoi romanzi raggiungessero un certo successo prima di svelarsi al pubblico e, quando lo fece, suscitò moltissimo scandalo, tanto che continuò a pubblicare le sue opere sotto il nome di George Eliot.

Joanne Rowling

Un’altra abitudine molto diffusa, sempre negli stessi anni, era quella di cambiare identità a seconda del genere letterario: celebre esempio di tale pratica è Louisa May Alcott. Autrice del romanzo per ragazzi Piccole Donne e dei successivi tre capitoli della saga, Piccole Donne Crescono, Piccoli Uomini e I Ragazzi di Jo, Alcott scrisse anche romanzi rosa ricchi di colpi di scena, sotto l’ambiguo pseudonimo di A. M. Barnard.

Senza andare troppo indietro nel tempo, un eclatante caso di “cambio di genere” ha interessato nientemeno che J. K. Rowling, autrice della saga best seller di Harry Potter (e, più di recente, delle sceneggiature della serie cinematografica Animali Fantastici). Nel 1997, dopo non poche difficoltà, la casa editrice inglese Bloomsbury accetta il manoscritto di Harry Potter e la Pietra Filosofale ma chiede a Rowling di scegliere uno pseudonimo, per il timore che il pubblico (ci si rivolgeva al target degli adolescenti) non manifestasse interesse nei confronti di un libro scritto da una donna. La stessa autrice spiega l’accaduto alcuni anni dopo, durante un’intervista per il Friday Night with Jordan Ross, trasmessa dalla BBC il 6 Luglio 2007:

«Ross: La “J” sta per Joanne, credo, ma tutti ti chiamano Jo.
JKR: Si, Jo.
Ross: E la “K” non è davvero il tuo nome, vero?
JKR: No, è il nome di mia nonna. Hanno voluto [alla Bloomsbury] un’altra iniziale, così ho scelto Kathleen come secondo nome.
Ross: Così che suonasse più intellettuale?
JKR: Maschile.
Ross: Più maschile?
JKR: Esatto, hanno pensato che il primo libro avrebbe attirato l’interesse dei ragazzi.
Ross: Se tu avessi avuto la doppia iniziale?
JKR: Hanno ritenuto che avrebbero perso interesse pensando che il libro fosse scritto da una donna.»

La percezione che gli uomini tendano a evitare romanzi scritti da donne è tanto diffusa che sono proprio le donne le prime a esserne consapevoli: Christina Lynch e Meg Howrey sono le co-autrici dei due bestseller del New York Times, City of Dark Magic e City of Lost Dreams, entrambi pubblicati dalla Penguin Books. In un’intervista del 2013, alla domanda se usare uno pseudonimo maschile le potesse aver aiutate, la risposta fu:

«Forse è utile per l’autore, che può avere una serie di ragioni per utilizzare un nome di penna – un desiderio di sfuggire agli stereotipi di genere, l’anonimato, capriccio puro e semplice. Si può solo immaginare quanto J. K. Rowling sia stata felice di vedere il suo libro ottenere recensioni meravigliose senza alcun riferimento a Voldemort! Dato che avevamo sentito dire che gli uomini evitano i libri delle donne, abbiamo deciso di scegliere uno pseudonimo maschile per raggiungere entrambi i sessi. Ma poi le nostre identità sono state rese pubbliche fin dall’inizio, quindi non abbiamo avuto la possibilità di vedere se “Magnus Flyte” avrebbe ingannato qualcuno. Non importa, lo amiamo comunque».

Il fenomeno quindi, lungi dall’essere un retaggio del passato, continua a far parlare di sé tanto che nel suo ormai celebre articolo Scent of a Woman’s Ink, pubblicato su «Harper’s Magazine» nel Giugno del 1998, Francine Prose conia il termine Gynobibliophobia, riferendosi alla «terribile confessione» contenuta nell’opera autobiografica Pubblicità per me stesso dello scrittore Norman Mailer:

«Ho una terribile confessione da fare – non ho niente da dire su nessuna delle donne di talento che scrivono oggi. Senza dubbio a causa di  un mio difetto, non mi sembra di essere in grado di leggerle. […] A rischio di farmi una dozzina di devoti nemici per tutta la vita, posso solo dire che i profumi che ricevo dall’inchiostro delle donne sono sempre finti, come cappellini vecchi, minuscoli, troppo superficialmente psicotici, storpi, striscianti, modaioli, frigidi, […] oppure brillanti e nati morti. […] Un buon romanziere può fare a meno di tutto, tranne che delle sue palle.»

Prose continua, domandandosi se sia possibile capire il genere di un autore esclusivamente dalla sua scrittura e, come pare ovvio, conclude che non esistono una scrittura “maschile” e una “femminile” ma piuttosto, se una distinzione va fatta – e va fatta – esistono una scrittura buona e una scrittura cattiva.

Inoltre, si sofferma su alcune statistiche che, seppur datate, danno una misura della disparità in questione: nel 1997 The New Yorker pubblica solo 10 racconti scritti da donne, contro i 37 di autori uomini; dal 1992, il New York Times Book Review, probabilmente la voce più importante nell’ambito recensioni, ha incluso 22 libri di narrativa maschile e 8 di narrativa femminile. E l’elenco non finisce qui:

«Nel 1988, quando nessuno dei dieci migliori libri del New York Times dell’anno era di una donna, i redattori […] hanno pubblicato questo disclaimer: “Nel caso in cui qualcuno non se ne sia accorto, nessuno dei libri di quest’anno è di una donna. Tra gli oltre 40 volumi originariamente nominati dai singoli editori, molti, sia di narrativa che di saggistica, sono stati scritti da donne. Ma nessuna è rimasta tra le scelte finali dopo due mesi di discussioni”».

Se questo accadeva nel 1998, quindi ormai 20 anni fa, Prose ha avuto da ridire di nuovo sull’argomento nel 2011, quando nientemeno che il premio Nobel per la Letteratura V. S. Naipaul dichiarò in un’intervista per la Royal Geographic Society che:

«Le scrittrici sono differenti dagli scrittori. Mi basta leggere un paragrafo di un libro per capire se è scritto da una donna. Le scrittrici non sono alla mia altezza. Il loro sentimentalismo le rende inferiori. La visione sentimentale del mondo di Jane Austen è insopportabile».

Francine Prose

E in un nuovo articolo per «Harper’s Magazine», la scrittrice statunitense aggiunge la sua voce al fiume di proteste e indignazione scaturite dalla dichiarazione di Naipaul, commentando:

«Suppongo che una scrittrice dovrebbe essere felice quando un pezzo che ha scritto più di dieci anni fa sembra fresco e pertinente come se fosse stato scritto ieri. Ma in questo caso, non lo trovo un motivo di celebrazione o di autocompiacimento. Onestamente, preferirei che Scent of a Woman’s Ink sembrasse datato: un pezzo d’epoca su un problema che le donne non hanno più».

Un problema che le donne, invece, continuano ad avere, tanto che nel 2015 la scrittrice Catherine Nichols scrive per il blog Jezebel un articolo intitolato Homme de Plume: what I learned sending my novel out under a male name (Homme de Plume: cosa ho imparato inviando alle case editrici il mio romanzo usando un nome da uomo).

Nel suo pezzo Nichols racconta come lo stesso manoscritto, inviato prima con un nome da una donna, poi con uno da un uomo, abbia suscitato reazioni molto diverse; mentre il “manoscritto di Catherine” ha ottenuto reazioni tiepide da parte di agenti letterari e case editrici e solo due hanno chiesto di poter avere il testo completo, il “manoscritto di George” (il suo homme de plume, appunto) ha invece ottenuto reazioni molto più entusiastiche e ben diciassette proposte di collaborazione. Insomma, George è risultato otto volte e mezzo migliore di Catherine, tanto da farla arrivare alla conclusione che «il problema non era il mio romanzo, il problema ero io —Catherine».

Inoltre Nichols nota come i commenti sul manoscritto avessero toni molto diversi se indirizzati a Catherine piuttosto che a George; mentre a Catherine venivano fatte osservazioni relativamente sterili come «stile meraviglioso, ma la sua protagonista non è molto coraggiosa, vero?» che non le erano di grande aiuto nel capire effettivamente cosa non funzionasse, il lavoro di George era “intelligente” e “ben strutturato”. Nessun agente o editore ha commentato come le sue frasi fossero troppo liriche o i protagonisti troppo esuberanti. Alcuni hanno persino inviato critiche profondamente generose e premurose, come a voler dare a George una chance in più per migliorarsi, rispetto che a Catherine.

E non sono solo le autrici ad aver difficoltà a far valere le proprie voci, ma anche le loro protagoniste: Nicola Griffith, acclamata autrice britannica di romanzi di fantascienza, ha condotto una ricerca sui vincitori dei più importanti premi letterari degli ultimi 15 anni e ha scoperto che per la maggior parte sono stati vinti da romanzi con protagonisti maschili, scritti da uomini, e che i romanzi scritti dalle donne hanno avuto successo solo se il loro punto di vista era comunque maschile:

«In cima alla scala di prestigio, per il Premio Pulitzer i libri premiati scritti da donne con un punto di vista di una donna o di una ragazza, sono stati zero su 15 [aggiornato al 2015]. Zero. Per il premio che riconosce “la narrativa più prestigiosa di un autore americano”, non è stato considerato degno un singolo libro scritto dal punto di vista di una donna o su una donna. Le donne non sono interessanti, dice questo risultato. Le donne non contano».

In fondo alla scala del prestigio, invece, Griffith riporta che il Newbury Medal – premio per il miglior contributo alla letteratura americana per bambini – è stato conferito per ben 5 volte a libri di autrici narrati dal punto di vista di bambine o ragazze. La conclusione della ricerca, dunque, sembra essere che – per quanto riguarda i premi letterari – quanto più prestigioso e finanziariamente remunerativo è il premio, tanto meno è probabile che il vincitore scriva dal punto di vista di donne adulte; di conseguenza, le prospettive delle donne sono considerate poco interessanti o indegne di vincere un riconoscimento.

La discriminazione e i pregiudizi nei confronti delle autrici e, in generale, la difficoltà delle donne nel “farsi prendere sul serio” è quindi una questione tuttora aperta; la soluzione, come in molti altri aspetti dell’eterna lotta per ottenere parità di diritti, sembra ancora lontana, sebbene, parafrasando il testo simbolo contro la Gynobibliophobia, il già citato Scent of a Woman’s Ink, sarebbe sufficiente un po’ di buonsenso:

«è inutile caratterizzare, categorizzare e valorizzare la scrittura in base al genere dell’autrice. La migliore scrittura ha poco a che fare con il genere […]. Non esiste un linguaggio maschile o femminile, ma solo il vero o il falso, il preciso o il vago, l’ispirato o il banale. Se, in futuro, qualche strano cataclisma dovrebbe rimescolare o cancellare tutti i nomi degli autori da tutti i libri di tutte le biblioteche, i lettori potrebbero avere problemi […] a dire se Emma Bovary e Hester Prynne siano stati creati da donne o uomini. L’unica distinzione che conta sarà tra scrittura buona e cattiva».

 

*Le traduzioni sono tutte a cura di chi scrive.



CREDITS

Copertina by Lo Sbuffo

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