Pensierino sul futuro: abbiamo qualche certezza sul domani?

«Di doman non c’è certezza» scriveva Lorenzo De’ Medici. È chiaro: il futuro segna il passo di una vita, stende il velo sull’opinione e scivola dalle mani. All’essere umano è stato sufficiente ma sgradevole abbozzare predizioni d’occorrenza, talvolta semplici e talvolta avventate. Ma anche la più lucida delle aspettative è infintamente distante da un’intuizione profetica: né la scienza, né la logica, né l’abitudine, sanno fare predizioni millimetricamente dettagliate sul futuro. Dirlo è banale, ma ricordarlo non guasta, perché oggi la certezza sembra esser divenuta un’occorrenza, il risultato di un lavoro adeguato alla sua manifestazione.

Si sente parlare, soprattutto tra i banchi di politica e di opinione, di processi con risultati che andranno da A a B, senza fare troppi giri e senza scompigliarsi troppo i capelli. Va da sé capire che il risultato di un modus operandi del genere è tanto allettante nell’immediato quanto catastrofico nel mediato. Non c’è mai, e mai ci sarà, una tecnica della certezza, soprattutto riguardo questioni sfuggevoli e contingenti come quelle sociali e politiche. Se è vero che siamo animali politici, è altrettanto vero che ciò che riguarda il nostro habitat, il nostro tessuto naturale e quindi sociale, è dominato dalle capricciose eventualità di una serie eterogenea di contesti, desideri, risvolti inattesi e conseguenze meditate. In uno scenario del genere, la certezza e la predizione sembrano più vicine a Tiresia che a un qualunque software o scienziato sociale sufficientemente allenati.

Wittgenstein

Wittgenstein, in Della certezza, scrive che:

«La certezza è, per così dire, un tono in cui si constata lo stato di cose: ma dal tono non si conclude di aver ragione».

Infatti si può esser certi del fatto che il sole domani sorgerà, ma si può essere altrettanto certi del contrario. Il futuro e le certezze che si possono avere su di esso sono due concetti legati in maniera spesso duplice: il futuro può essere una quaestio facti, per cui la predizione di qualcosa è improntata sull’attesa che un evento più o meno intuitivo avvenga; o una quaestio animi, per cui il futuro non resta nel neutrale territorio dell’attesa, ma viene contaminato da aspettative, speranze, implicite, scommesse… Ed è proprio nella prospettiva di quest’ultimo modo di guardare al futuro che lo spettro della certezza fa i suoi danni più grandi. È chiaro che ciascuno di noi è diverso, eppure spesso ci sembrano adatte delle statistiche sommarie, con filtri e campi d’applicazione quanto meno manchevoli; è chiaro che da qualunque situazione politica si diramano un’infinità di prospettive, intrecciate, incoerenti e definitivamente imprevedibili. Se non vogliamo azzardarci a dire che non esiste una “scienza certa” in questo senso di certezza, ci basti almeno notare che, almeno per le questioni di praxis, di vita sociale e politica, non esistono modelli ipotetico-deduttivi che lascino il campo della probabilità e della possibilità per quello della linearità e del determinismo.

Ma come è possibile salvare gli affari umani da un pozzo di confusione e di rassegnazione? Come continuare a scommettere sul futuro, a sapere come muoversi e per cosa? Riel Miller, nel suo Transforming the future: anticipation in the 21st Century, propone un radicale cambio di prospettiva in materia dei modi in cui ci è lecito parlare del domani con accorta cautela. Nel libro delinea la figura dell’«istruito sul futuro». “Saper leggere” il futuro non significa sapere come togliergli gli abiti di dosso, inventando algoritmi infallibili o torce per l’oscurità più nera: si tratta solo, come per la certezza, di essere nel giusto atteggiamento, di assumere un tono di adeguamento all’ordine complesso delle cose, essendo però allo stesso tempo consapevolmente pronti a costruirsi le proprie aspettative. L’agente istruito, nel futuro, non trova niente se non se stesso:

«Una persona istruita sul futuro ha acquisito le capacità necessarie per decidere perché e come usare la sua immaginazione per introdurre il futuro non-esistente nel presente».

Siamo portati a percepire il futuro come un complesso terreno da sondare con certezze che molti millantano di avere, mentre lo spazio riservato all’immagine del progresso, all’utopia, alla predizione, non è che una materia di atteggiamento nei suoi confronti, di ricerca capace di essere promossa da ognuno. Il futuro è semplicemente quella nube di fili in cui ci imbrogliamo, non un mistero inarrivabile per le nostre certezze, ma quell’ambiente caotico che mette alla prova il “patrimonio di certezze” che ognuno di noi possiede. Il futuro non è vaghezza, ma confusione, che dobbiamo imparare a riconoscere come qualcosa che ci riguarda e su cui possiamo lavorare. Un futuro distopico non cade dalle cime della storia come una valanga incontrollabile, ma è solo l’eventuale risultato di un lavoro mal svolto da ciascuno di noi, che non abbiamo saputo trovare in noi stessi l’onere della creazione di un ambiente utopico.

Nessuno può dare formule o certezze su cui basare il futuro delle cose umane, perché il futuro è questione di prospettiva. Esso non ci accade, perché non è qualcosa d’indipendente dalla nostra volontà: “futuro” è solo il modo di denotare un campo di lavoro. Possiamo dire, con Miller, che il futuro “non-esiste”. Il futuro lo si sente, lo si vive nel presente, e non c’è futuro per l’umanità che, in questo senso, non sia qualcosa di previsto.

 


FONTI

L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, 1999

R. Miller, Transforming the future: anticipation in the 21st Century, Rutledge, 2018

 

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