L’illusione di poter sfidare una dea: Aracne contro Atena

Figlia del tintore di porpora Idmone di Colofone e sorella di Falance, esperto nelle armi, Aracne era una bellissima fanciulla abile nell’arte dell’intreccio. Nata e cresciuta nella Lidia, la giovinetta sembrava aver appreso il mestiere dalla stessa Atena, dea greca della sapienza, delle arti e della guerra. Dote, genio, talento caratterizzavano la vergine tessitrice. Le sue creazioni erano incantevoli e il modo in cui realizzava le tele affascinante: le sue mani e le sue braccia si muovevano con un portamento soave e armonico.

La delicatezza delineava la sua attività e l’orgoglio tratteggiava il suo carattere. Era sicura della sua bravura e forte delle sue capacità. Come spesso accade nel mondo mitologico, Aracne però, un giorno, arrivò a sfidare Atena, sostenendo non solo di essere all’altezza della dea, ma addirittura di riuscire a superarla. La stima eccessiva dei propri meriti diventò presunzione. A descriverla diventò la superbia eccessiva e smisurata.

Altezzosa e supponente decise di sfidare la dea in un pubblico duello. Pallade, figlia prediletta di Zeus, era la filatrice personale di tutti gli dei dell’Olimpo. La tessitura era una delle svariate attività in cui eccelleva e primeggiava su tutti, mortali e non.  È Ovidio nel VI libro delle Metamorfosi – anche se sembra che già Virgilio nelle Georgiche l’avesse già introdotta nella letteratura – a raccontare ciò che avvenne.

In un primo momento la saggia dea scelse di esortare la mortale a ritirare la sua proposta di gara: sotto le spoglie di una giudiziosa donna anziana consigliò alla fanciulla di ritornare alla sua arte per non scatenare l’ira di Atena. Ma il riscontro non fu positivo né gli effetti quelli sperati. Aracne continuò a persistere nella sua vanagloria: era la dea a non avere il coraggio di paragonarsi alla vergine mortale, spaventata dalla sua dolcezza e abilità.

Minerva e Aracne, Tintoretto, 1579, dipinto, olio su tela, Galleria degli Uffizi Firenze

Fu proprio quest’ultimo atto di hybris (ὕβϱις in greco antico) a inaugurare la sfida. Rabbia e indignazione portarono la donna canuta a rivelare la sua propria identità. Ad Aracne non bastava essere la migliore tra gli umani, voleva raggiungere gli dei celesti. Dopo aver ricevuto in risposta un rifiuto Atena non riuscì più a sopportare l’arroganza di una così valente – ma mortale e sfrontata – tessitrice.

E si aprì così la gara: Atena da una parte e Aracne dall’altra. Una di fronte all’altra si sfidarono nel campo di battaglia comune ad entrambe: la tessitura di un arazzo. Su un telaio ognuna iniziò il proprio lavoro e man mano che il tempo passava la loro arte si mostrava sempre di più. Non si trattava solo di una semplice opera di artigianato, ma anche di rappresentazione artistica.

Aracne dalle dita graziose e leggiadre intrecciava sulla tela i bassi comportamenti degli dei stessi. Mostrò un Poseidone inopportuno negli amori e uno Zeus mosso da sfrenate e incontenibili passioni terrene. Dal canto suo invece con le mani sacre e divine, Atena tesseva le maestose imprese celesti compiute dagli dei proprio grazie ai loro poteri e alla loro essenza divina. Ma non solo:

“Affinchè la rivale nella gloria comprenda da esempi

ciò che la attende per l’insensata audacia,

aggiunge ai quattro angoli altrettante sfide,

vivaci nel colore, nitide nei particolari”

(Ovidio, Metamorfosi VI, 83-86)

Entrambe le scene rappresentate sugli arazzi erano un ulteriore elemento di sfida. Rivendicare la propria natura con appagamento e ostentare la propria arte nelle tele: questi erano gli scopi del duello. Ma è la perseveranza a guidare costantemente la fanciulla. La sua continuata ostinazione la porta però a un fine non lieto.

La dea sin da subito sembra ammettere la bellezza della tela dell’avversaria: era di una bellezza mai vista. Incantata dalla verosomiglianza dei personaggi delineati e affascinata dalla scena descritta, si lasciò in un primo momento convincere dalla sua superiorità. Ma solo inizialmente; a distanza di poco tempo l’approvazione provata da Atena nei confronti della graziosa fanciulla si trasformò in invidia. La gelosia prese velocemente il posto del gradimento. Rifiutò bruscamente l’arte di Aracne mossa da malsana rivalità.

L’avversaria, in quanto mortale, non poteva vincere. Per quanto meravigliosa l’arte della mortale tessitrice non avrebbe mai sorpassato quella di Pallade. Panico e terrore si diffusero nell’aria. Offuscata dall’ira la dea agguantò l’opera d’arte antagonista e la lacerò in mille pezzi. In presa al furore, la strappò con la propria spola fino a ridurla polvere. Da notevole e imponente arte al nulla: fu questa la fine del capolavoro di Aracne.

Gustave Doré , 1861, Canto XII, Purgatorio, La Divina Commedia (Dante Alighieri), incisione

Il suicidio era l’unica via d’uscita per la giovane. Tentò infatti di impiccarsi su un albero. Ma non ci riuscì. L’invidiosa figlia di Zeus la trasformò in un ragno e la corda utilizzata per strozzarsi nella sua ragnatela. Nessuna pietà nei confronti della fanciulla, nessuna compassione: Atena la condannò a vivere tessendo in eterno. La sua testa si rimpicciolì, i setosi capelli caddero, il naso e le orecchie si trasformarono velocemente. Ma soprattutto le graziose mani diventarono esili zampe: da quel momento in poi avrebbe filato solo con la bocca.

Questo il destino di chi osa sfidare gli dei. Di chi crede di poter vincere contro la loro potenza. Aracne rappresenta la ribellione a un sistema religioso già ben definito e acclamato. L’opposizione a un mondo divino e quindi invincibile. La graziosa vergine paga le conseguenze della propria tracotanza: vivrà nel perenne ricordo della sua sconfitta.

Una sconfitta non dovuta all’inferiorità della propria arte o all’assenza di talento, bensì ad una battaglia persa in partenza. Qualsiasi mito greco antico si conclude con una netta differenza tra vincitore e vinto. Ma a perdere non è mai l’immortale, a rimetterci è sempre e solo l’uomo. Eppure sono gli dei stessi a nutrire spesso sentimenti, passioni e rancori umane. Sono loro a vendicarsi e a decidere le sorti di chi osa sfidarli. E il tutto finisce sempre con una clamorosa disfatta dei mortali.

FONTI

Metamorfosi libro VI, Ovidio

CREDITS

immagine copertina: Marzo (Trionfo di Minerva), Francesco del Cossa, 1467, affresco, Palazzo Schifanoia, Ferrara

immagine 1

immagine 2

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.