Prisoners: quando il male si nasconde dietro la porta di casa

In inglese il termine prisoners sta ad indicare i prigionieri o, in ogni modo, quelle persone che sono rinchiuse in un determinato luogo, in un preciso momento. Il film di cui parliamo tratta proprio di questo, di una prigione a doppio senso: interna ed esterna al corpo (o forse dovrei dire mente) dei protagonisti di questo splendido film di Denis Villeneuve.

Partiamo dall’ambientazione: America rurale (Pennsylvania), città indefinita ma capiente. Una comunità stretta attorno a forti regole sociali e convenzioni. Di fatto la pellicola mette in luce una realtà che va a rappresentare la vera America, quella dei negozi di liquori aperti tutta la notte e delle case periferiche senza acqua corrente, vicine alle mega ville illuminate tutto l’anno. Fin da subito lo spettatore è immerso in questo luogo ameno, solitario e particolare.

Bob's house is fully covered in never-ending mazes.

Ci sono poi i protagonisti: vi sono due famiglie (una di bianchi, una di colore) composte da padre, madre, due figli uno grande l’altro piccolo. Ecco a voi un altro stereotipo classico della società americana, le famiglie fatte con lo stampino (non a caso si svolge tutto attorno al Ringraziamento). Un sociologo americano di nome Talcott Parsons negli Anni Cinquanta scrisse un libro nel quale definiva quel tipo di famiglia cosiddetta nucleare, il modello perfetto che va a rendere grande il paese.

Come in ogni film americano che si rispetti vi sono anche dei poliziotti in scena, uno legato alla sedia o, meglio, incastrato. Si muove poco ed è un po’ nullafacente; l’altro è più attivo e fedele al distintivo.

Infine, il villan. Ora non vi dico chi è, chiaramente. Ma fate attenzione ai piccoli particolari, soprattutto ai piccoli dialoghi, quasi sussurrati di un personaggio mistico perennemente presente nel film e capirete di cosa parlo. E’ un villan geniale, nonostante il gesto che compie, quasi ci si riesce ad immedesimare nel suo comportamento. Quasi.

Una pellicola, però, non è fatta solo di parole, bensì di cinematografia: ciò significa che qualcuno, in questo caso, Roger Deakins, ha studiato dei colori e delle espressioni visive che vanno a ricadere nella psicologia dei personaggi stessi. Il colore (grigio e nero, tendenzialmente) si impone nelle nostre menti, si insinua come un virus che alla fine fa riflettere.

Vi sono dei particolari talmente ben studiati che si rimane, a film concluso, esterrefatti.

Torniamo alla parola iniziale, prisoners: inizialmente si pensa che si riferisca a quello che succede a qualcuno ad inizio film, poi, si capisce che il concetto di cui parlavo più sopra può essere riferito ad altre situazioni, come appunto quelle interne ai personaggi, al loro essere e alla loro storia personale. L’avvenimento fa capire loro quali siano le strade giuste da prendere e quali le conseguenze. Pare un film della formazione.

Motivi per vederlo? Jake Gyllenhaal in tutto il suo splendore, l’interpretazione magistrale di Paul Dano e i colori.


FONTI

IMdB

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