Le due “cene in Emmaus” di Caravaggio: confronto,analogie e differenze

Molti artisti, soprattutto oggi, fanno di tutto per rendere la propria vita poco convenzionale, attraente  e ai limiti dell’accettabile sotto vari punti di vista. Se c’è un grande artista che non ha dovuto sforzarsi in nessun modo, che ha avuto una vita estremamente agitata, spericolata e romanzata dai biografi del suo stesso tempo, è stato Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come Caravaggio.

Nato a Milano –e non nel borgo di Caravaggio come pensano molti,- il 29 settembre 1571, Michelangelo Merisi da Caravaggio è stato uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, che ha rivoluzionato completamente il linguaggio visivo del mondo occidentale. La vita del pittore è stata costellata da episodi di varia natura e gravità: a partire da quel famoso aneddoto del 1604, in cui Caravaggio scagliò un piatto di carciofi addosso ad un oste soltanto perché questo non aveva saputo riconoscere com’era stata cucinata la pietanza; fino al famoso episodio in cui, assieme ad Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, Caravaggio fu querelato dal pittore rivale Giovanni Baglione a causa delle poesie diffamatorie che i tre amici avevano scritto sul suo conto.
Gli anni romani (1594-1606) poi, sono costellati da guai con la legge dalla quale Caravaggio riesce quasi sempre a salvarsi per merito dei suoi protettori: prima il Cardinal Francesco Maria del Monte, e poi il marchese Vincenzo Giustiniani. Ma l’episodio più grave, quello che stravolse totalmente la vita di Merisi, fu l’uccisione di Ranuccio Tommaso avvenuta a causa di una disputa durante una partita di pallacorda. È il 28 maggio 1606, a Roma, e ad un tratto, da massimo pittore della città, Caravaggio si ritrova criminale e fuggiasco: il verdetto della corte è infatti la condanna a decapitazione, che poteva essere perpetrata da chiunque. Dunque il pittore fugge, lascia la città che gli ha dato fama, gloria e grandi commissioni pittoriche, e inizia la fuga che terminerà solo nel 1610 con la morte per malattia, proprio quando aveva ormai guadagnato l’assoluzione.
La fuga e l’incertezza verso cui volge la sua vita si riflettono ossessivamente nelle tele successive al maggio 1606. Nonostante tutto, Caravaggio non smette infatti di dipingere, nemmeno mentre scappa, anche se le tele cominciano a farsi ancora più scure del solito, cupe. Anche i colori si scuriscono, si fanno sporchi e tenebrosi e i contrasti sono meno accesi rispetto a prima. Per quanto riguarda i soggetti, l’artista sembra ossessionato dalle teste mozzate: dipinge due versioni della Salomè con la testa del Battista, e nel David con la testa di Golia del 1610 si ritrae nei panni non del vincitore, ma del vinto, quasi sentisse già la lama fredda della spada premere contro la propria gola. Soprattutto, ci sono due tele che presentano lo stesso soggetto, ma sono stilisticamente ben rappresentative di questo profondo mutamento avvenuto dopo il 1606.
Si tratta delle due versioni della Cena in Emmaus, realizzate da Caravaggio nel 1601 la prima, e nel 1605-06 la seconda.

La prima versione è conservata alla National Gallery di Londra.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601, Londra, National Gallery

È stata realizzata in un periodo felice: nel 1601 Caravaggio è ospite del Cardinal Del Monte (1549-1627), presso cui rimane alcuni anni. È un periodo di stabilità, il Cardinale è un uomo di cultura, grande collezionista d’arte che ama circondarsi di quadri ben realizzati e ne acquista alcuni da Caravaggio.
Il pittore ha un tetto sulla testa, un posto dove poter lavorare, un protettore che lo aiuta a tirarsi fuori dai guai. Questa tranquillità di spirito si riflette nella prima Cena in Emmaus, in cui Cristo è giovane, senza barba, con il viso incorniciato da morbidi boccoli color miele. Ha un’espressione lieve, una mano nel gesto della benedizione: è stato riconosciuto, non smascherato, ed è lieto di mostrarsi.
I due pellegrini vestono abiti poveri, quello di sinistra ha la manica bucata all’altezza del gomito e quello di destra mostra una conchiglia appuntata alla veste. Caravaggio attualizza l’intero dipinto grazie a questo dettaglio: la conchiglia è il simbolo per eccellenza del pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, istituito successivamente alla morte di Cristo.
La scena ha colori accesi che spiccano dallo sfondo scuro: il rosso della veste di Cristo soprattutto, ma anche il verde smeraldino dell’abito del pellegrino; i bianchi puri sono nella tovaglia e nella cuffia dell’oste, che spicca sullo sfondo buio. Tracce della prima formazione naturalistica lombarda dell’artista si ritrovano nella meravigliosa natura morta che prende posto sulla tavola: il pane, il pollo, la caraffa di cristallo con i suoi splendenti riflessi, e il cesto di frutta che richiama chiaramente la Canestra dell’Ambrosiana.
La tela è stata commissionata da Ciriaco Mattei, grande collezionista e amante d’arte.

La seconda versione della Cena in Emmaus è oggi conservata alla Pinacoteca di Brera, a Milano. È stata realizzata tra il 1605 e il 1606, proprio al principio dello stravolgimento della vita di Caravaggio.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1605-06, Milano, Pinacoteca di Brera

Se la prima versione era ancora luminosa, satura di colori e piccoli dettagli che costruivano tutto il quadro, la seconda versione vira verso la tenebra, con tinte tutte giocate tra gli ocra e i marroni. I rossi scompaiono, i verdi rimasti sono terrosi. Cristo ha la barba e un’espressione corrucciata, quasi i due pellegrini lo abbiano disturbato riconoscendolo. Inoltre è adulto, non più un ragazzo con l’adipe giovanile ancora attorno alle guance come nella versione precedente. Qui è provato dagli avvenimenti dell’esistenza, è un sopravvissuto che ha compreso la durezza della vita.
Inoltre, c’è un personaggio in più. L’anziana che porta il vassoio ricorda la figura della vecchia ancella di Giuditta che regge il sacco dove la ragazza lascerà cadere la testa recisa di Oloferne, dopo averlo aggredito nel sonno. In questa tela non ci sono decapitazioni, ma l’artista inserisce questa figura la cui posa ricorda quella sua stessa tela (Giuditta e Oloferne, 1597 ca., Roma, Palazzo Barberini), forse proprio perché ossessionato dall’idea della propria morte, dal pericolo costante in cui si trova.
Anche il volto di Cristo è per metà nascosto dall’oscurità, mentre nella prima versione risplendeva di luce propria e non era toccato nemmeno dall’ombra che la figura dell’oste avrebbe dovuto proiettare su di lui. Qui invece Caravaggio non ha più sicurezze: nemmeno la fede riesce più ad illuminarlo, si sente perduto e soprattutto braccato.
La stessa natura morta presentata sul tavolo è molto essenziale, povera se confrontata con quella della prima versione.
Anche tecnicamente ci sono delle differenze importanti. La seconda versione è caratterizzata da un’esecuzione più rapida, la materia pittorica è più sottile, basta appena a coprire la tela, che infatti si intravede in alcuni punti. Caravaggio non ha modo di lavorare con calma mentre sta scappando, ma niente sembra fermare la sua smania di dipingere, nemmeno la fuga.

Pochi anni separano questi due lavori, ma un grande divario tecnico, stilistico ed emotivo li distacca completamente l’uno dall’altro, rendendoli completamente diversi, quasi opposti.


 

 

 

 

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