L’ultima Eroide

Carissimo Ovidio,

mi rendo conto che potrà sembrarti alquanto bizzarro, se non assurdo, che una come me scriva a uno come te. Non è tanto il fatto che ci separino circa duemila anni o che parliamo lingue diverse e, in più, la tua, quel latinaccio che mi faceva sudare freddo sui banchi di scuola, io non l’abbia mai veramente capita, anche se ormai sono grande e ho finito tutte le scuole dell’obbligo e di piacere. No, ciò che ti sembrerà più strano, almeno credo, è che io, una scrittrice polemica e squattrinata, senza futuro, scriva a te, Publio Ovidio Nasone, un pilastro della letteratura che ha fatto nascere la mia, un padre di marmo che non riuscirò mai a scalare per mirare il cielo.

Ebbene, proprio perché sei tu, caro Ovidio, dovresti ben risponderti da solo. In primo luogo, posso assicurarti che una cosa in comune ce l’abbiamo, e pure grossa: tu sei stato mandato in esilio dall’imperatore perché avevi insidiato la diletta nipote; io e tutti quelli della mia categoria, i letterati e, più in generale, gli intellettuali, siamo stati banditi al precariato da una cultura che predica il piacere e razzola dolore, perché abbiamo insidiato le coscienze popolari con la tentazione angosciosa del dubbio. Ma le nostre affinità non si fermano certo qui: anche io, come te, sono una scrittrice democratica, e se mi viene in mente di scrivere manuali, lo devo certo fare per tutti; inoltre, come te, sono anche vagamente polemica e se le correnti di pensiero e di linguaggio vanno a tutta dritta, io vado a sinistra e ci rido su.

A questo punto, posso già cominciare a dirti perché mi sono ridotta a scriverti, all’alba del compimento della seconda decade del ventunesimo secolo. È per un problema pratico: qui non è più come una volta, quando bastava trovarsi il Mecenate di turno e si campava sereni. O impari a venderti, oppure sei fottuto. E nessuno vuole acquistare il dubbio, caro Ovidio, tutt’al più un mazzo vacuo di sicurezze. Dunque, bisogna cercare altri modi per sbarcare il lunario. Uno di questi, per me, è scrivere quattro articoli al mese, degli argomenti più disparati. Ogni tanto mi tappo il naso e cerco di districare questo buio abisso che è la politica, ogni tanto mi tuffo senza remore in un vortice di carte che mi fa perdere la nozione di me stessa – talvolta, invece, esercito la mia capacità edile, io la chiamo così. Faccio il lavoro dell’operaia, e ne sono figlia: costruisco castelli, architetto mondi, sistemo la viabilità degli oceani che partorisco. Ma non è questo il punto.

Il punto è che mi mancava un ultimo articolo, e mi sei venuto subito in mente tu, che, duemila anni fa, andavi a sinistra e ci ridevi su. La mia generazione ha pigliato questa abitudine per non farsi soffocare: ridono per dimenticarsi della sofferenza; per tirare una boccata di ossigeno appena prima di ritornare in apnea. Io non faccio eccezione, e volevo ridere della cosa che più di tutte mi ha lacerato: l’amore.

Allora, m’era venuto in mente che sarebbe stato meraviglioso proseguire la tua scia, che anche se è passato tanto tempo non puzza mica di marcio. Scrivere un’Eroide fingendomi una personaggia, aggiungere qualche ghirigoro linguistico arguto qua e là, imitare una sintassi cervellotica e degna del peggior postmodernista (latino o europeo che si voglia) e lanciare tutto in redazione, dove avrebbe rimbalzato tra caposezioni e capoaree e poi dritta nello smartphone di qualche incauto lettore con il mio stesso senso dell’umorismo – del I secolo a. C., appunto.

E invece, l’amarissima scoperta.

Nei nostri miti non ci sono più amori impossibili da motteggiare. Nessuno. Gli ultimi, a essere proprio larghi nel giudizio, risalgono agli anni Venti del Novecento. Poi, più nulla. Non che non ci si innamori più, è che tutto è diventato così anonimo e riciclabile, perfino l’amore, che non è sufficientemente duraturo nemmeno per incastonare le sue vittime nel tempio degli immortali – e così si dimenticano, in un flusso liquido continuo che scorre e sbatte contro spigoli taglienti, senza mai che si sappia dove si sta andando. Che forse, l’amore è sempre stato così. È come se a un certo punto avessimo deciso di smetterla di prenderci in giro e di dire davvero le cose come stanno: il sentimento è volatile, chi crede più che sia necessario morire per qualcun altro? Solo i giovani, prima di sopravvivere a se stessi.

In una situazione come questa, dove non soltanto manca il materiale umano (cioè, la proiezione umana su carta) ma addirittura è assente la stessa motivazione che spinge a riderci su, ho sentito un grande senso di spaesamento, di angoscia esistenziale triplicata. Non tanto perché gli scrittori abbiano finalmente scoperto la verità sull’amore, quanto perché non avevo più nessunissima idea per il mio ultimo articolo. Niente idea, niente moneta, niente pane. Ridicolo, non trovi?

Così ho deciso che, per una volta, potevo vestire dei panni quasi miei – non che lo siano davvero: dopotutto scrivendo, divento di ”carta” anche io – e di rendermi protagonista dell’ultima Eroide che volevo comporre, trasformando te, una mummia plurimillenaria, in un personaggio della mia fantasia. Ma il nostro amore, caro Ovidio, non è un sentimento reciproco. Anche aggiungendo la componente immaginativa, è concettualmente impossibile che io e te possiamo amarci davvero. Eppure possiamo guardarci negli occhi, attraverso l’amore.

Potrei dire che ho trovato l’amore impossibile, ed è quello che mi costringe a una vita da mendicante per rispettare questo sentimento che non ha nessuna voglia di morire. È la sua impossibilità a consentirmi di esistere, frantumandomi in migliaia di coscienze, e di parlarti, di chiamarti oltre le spesse coltri dell’oblio che ti annegano. E non è qualcosa di isolato, privato, o almeno non solo. Un amore che non lega solamente te e me, ma una moltitudine di persone è qualcosa di estremamente pubblico: sono le pagine dei libri, i saggi delle riviste, le lettere degli inviati all’estero, la pazienza del redattore che durante la notte accende il computer per scrivere – la tua, mio Ovidio, che hai aperto il link per leggere.

La so qual è la tua obiezione: «Questa non è affatto un’Eroide! Non fa ridere, nemmeno sorridere. Stai qua a declamare la potenza del tuo sentimento senza nemmeno una briciola di ironia, un giochetto arguto. E hai anche il coraggio di dire che abbiamo delle cose in comune!». E, ancora una volta, ti rispondo: non è affatto così. Sono diventata, frattanto che mi leggevi, una delle tue eroine: lamento una passione totalizzante e autoritaria, al tempo stesso impossibile. Mi rivolgo a te nella disperazione di un’esigenza pratica, colmare la vacuità del mio stomaco. L’unica cosa che puoi davvero imputarmi è che non sono alla tua altezza, ma questo lo avevamo già chiarito all’inizio di questa lettera. Cosa mi rimane da dirti? Una preghiera, forse. Non ti chiedo di darmi segni, di tornare in vita dai Campi Elisi oppure di amarmi in cambio. Non credo neppure mi piaceresti, tutto ossa, con brandelli di pelle incartapecoriti sugli zigomi.

So che comprenderai, ed esaudirai il mio più grande desiderio. Là, ovunque tu sia, prendi una cinta dorata e con essa circondati la testa. Tieni poi, nella mano sinistra, un grande volume, di quelli confezionati in pelle e grondanti muffa, polvere e pagine ingiallite; nell’altra, è sufficiente la tastiera di un computer. Siedimi vicino, nelle mie notti insonni, ascolta il mio richiamo ogni volta che sfido il vuoto e il bianco battendo i tasti, svitando cappucci di plastica e sussurrando versi sciolti. Il Muso di una scrittrice polemica puoi essere solamente tu.

Per sempre tua,

Filologa93

 


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