Se la sessualità non fosse un tabù, nemmeno per chi ha la sindrome di Down

Per le persone con la sindrome di Down la seconda domenica di ottobre è un giorno di festa; proprio per questo il 14 ottobre, in occasione della tredicesima edizione della Giornata Nazionale delle persone con sindrome di Down, più di duecento piazze italiane hanno ospitato diverse associazioni che da anni si occupano dei diritti delle persone con sdD, lottando per eliminare i luoghi comuni che ancora le circondano. Sono state distribuite tavolette di cioccolato in cambio di un piccolo contributo che sarà stanziato al fine di promuovere progetti che facilitino la loro inclusione in società, per un futuro in cui siano sempre meno i pregiudizi. Per chiarire le idee, iniziamo smentendone tre:

Non è vero che si assomigliano tutti e che sono sempre felici, contenti e affettuosi: un cromosoma in più rispetto agli altri (47 invece di 46), un deficit mentale e alcuni tratti somatici sono gli unici aspetti in comune tra chi ha la sindrome di Down, per il resto ciascuno di loro è unico e assomiglia esclusivamente ai propri genitori.

Non è vero che non possono lavorare, sono in grado di svolgere lavori anche complessi: se istruiti in modo mirato, hanno la capacità di risolvere i problemi con una creatività diversa.

Non è vero che non hanno consapevolezza della loro disabilità, ne sono del tutto coscienti, proprio per questo è compito dei genitori apprezzarne le qualità perché riescano a vivere con serenità.

Chiunque, arrivato a questo punto, pensi ancora di essere del tutto privo di preconcetti, quasi sicuramente sta mentendo: il tabù più faticoso da abbattere è infatti quello della sessualità. In particolare, il pregiudizio più diffuso è legato all’ipersessualità o asessualità delle persone con sdD.

È noto a tutti che i bambini con la sindrome di Down mostrino una sensibilità superiore a quella dei loro coetanei, per questo sin da giovanissimi sono molto più inclini alla socializzazione rispetto alle attività mentali e mnemoniche. Anche se non bisogna fraintendere: sono intelligenti nella scelta, selettivi, non provano uguale affetto per tutti.

Se da bambini le amicizie vengono gestite dai genitori, nel periodo adolescenziale questi ragazzi tendono a volersi allontanare dalla famiglia, proprio come i loro coetanei; nel momento in cui cercano amicizie altrove, però, si sentono esclusi dai compagni per la loro diversità. Si tratta di un periodo delicato in cui i genitori devono cercare di sostenerli nel modo più silenzioso possibile, non invadendo il loro spazio, per aiutarli ad accrescere la loro autostima e quindi anche la loro autonomia.

L’adolescenza non è solo questo: è anche il momento in cui si sviluppano gli organi sessuali – non diversi per anatomia da quelli dei loro coetanei – ed avviene così la scoperta della propria sessualità. Essendo i giovani con sdD più sensibili, e allo stesso tempo più sinceri ed espliciti degli altri, spesso iniziano a manifestare apertamente le loro emozioni: per questo sentono il bisogno di avere sempre vicino qualcuno a cui donare tutto il loro amore, oppure dichiarano di essersi innamorati di una persona, sia concreta – magari chi dedica loro più attenzioni – sia astratta, come personaggi della televisione.

Durante l’adolescenza accade spesso che nascano straordinarie amicizie e amori, anche se in una situazione “alla pari”, ovvero tra persone con la medesima diversità. Questo non significa favorire la loro emarginazione: si tratta di amicizie speciali, che non potrebbero essere tali tra una persona con sindrome e una persona senza, perché consentono loro di condividere la stessa “particolarità”, di vivere esperienze di confronto e di crescita, che portano progressivamente ad un’equilibrata consapevolezza della propria identità.

In molti casi nascono fidanzamenti bellissimi e duraturi, dove entrambi i ragazzi hanno l’occasione di scambiarsi tutto il loro amore e di soddisfare appieno quel bisogno tipico di chi ha la sindrome di donare e ricevere affetto. Non è raro che i due fidanzati siano in grado di avere rapporti o desiderino averli, ma non sempre i genitori lo permettono per il timore di un’eventuale gravidanza. È ancora oggetto di studio la fertilità delle persone con sdD: per ora sappiamo che gli uomini hanno una fertilità molto ridotta, mentre le donne sono per il 50 % fertili. In rari casi e con il consenso dei genitori, queste coppie sono convolate a nozze: nell’estate del 2014, Mauro e Marta sono stati i primi in assoluto in Italia.

Nel corto Guest Room, il coraggioso regista Joshua Tate mostra con chiarezza la vita di Daniel ed Amber, una coppia con la sindrome di Down, che vive felicemente nella casa della famiglia di lui; un giorno Amber scopre di essere incinta, Daniel è contento, la famiglia invece non vuole che tengano il bambino. Amber soffre sentendosi una madre diversa e inadatta, sarà infine la sorella a convincerla a tenere il figlio.

Il cortometraggio mette in luce il complesso ruolo dei genitori dei ragazzi con la sindrome di Down. Da un lato vorrebbero proteggerli e preservarli dalle ingiustizie del mondo, dall’altro rischiano in questo modo di costringerli a vivere all’interno di una bolla di infelicità. Cercano in tutti i modi di inserirli nella vita sociale e sono contenti se hanno amici o si fidanzano, anche se sempre sotto il loro stretto controllo. Nel periodo dell’adolescenza, in cui questi giovani iniziano a reclamare una loro intimità, spesso i genitori si irrigidiscono ed iniziano a proibire loro qualsiasi azione riguardante la sessualità, sia per il timore dell’ereditarietà della sindrome, sia per il difficile ruolo genitoriale che questi ragazzi si troverebbero ad assumere in futuro. La reazione delle famiglie è dovuta esclusivamente alla paura: temono che i figli vengano esclusi dalla società per i loro comportamenti, che abbiano a loro volta dei figli, che dopo la loro morte non avranno tutori in grado di aiutarli, eccetera.

Si tratta di preoccupazioni più che comprensibili, ma occorre anche considerare l’importanza del ruolo del genitore, che deve riuscire ad educare un figlio all’autonomia,  concedendogli lo spazio sufficiente per essere libero e commettere errori: solo così imparerà a relazionarsi con gli altri. Un’ iperprotezione serve solo a far crescere questi ragazzi come eterni bambinoni, quando invece hanno numerose capacità e qualità che devono solo avere il tempo e il modo di manifestarsi. Quello dell’educazione sessuale è forse l’argomento più delicato da affrontare, ma se i genitori si mostrano sin da subito infastiditi o eccessivamente apprensivi, non faranno altro che accrescere il tabù della sessualità nei figli e quindi anche una maggiore curiosità. Per questi ragazzi è fondamentale ricevere una corretta e precoce educazione sessuale, anche ripetuta negli anni, così da rispondere a tutte le loro domande, in modo tale che siano in grado di gestire gli impulsi proteggersi da eventuali pericoli. È altrettanto importante che la loro sessualità non venga repressa: andrebbero incoraggiati i fidanzamenti, considerati come qualcosa di serio e non solo come un’amicizia speciale, non sono più bambini. Non bisognerebbe rimproverare loro neanche il semplice atto di autoerotismo, che potrebbe essere molto importante per la corretta gestione della sessualità: per questo è necessario che abbiano la loro privacy.

Oggi ci si pone maggiormente il problema della sessualità delle persone con sindrome di Down, perché è di gran lunga aumentata la loro aspettativa di vita: se prima vivevano in media fino ai 25 anni circa, ora possono tranquillamente raggiungere i 70. Questo perché, grazie all’evoluzione della medicina, si sono ridotte notevolmente le possibilità di contrarre malattie che prima erano comuni tra chi aveva questa sindrome, come problemi cardiaci, respiratori e di udito, morbo di Alzheimer, leucemia infantile e problemi alla tiroide.

Sarebbe bello poter permettere a tutte le coppie con la sindrome di Down di sposarsi, avere una famiglia e un’autonomia. Purtroppo è ancora molto complicato: per raggiungere una semi-autonomia di coppia queste persone hanno bisogno di un sostegno notevole da parte delle famiglie, che non sempre hanno le possibilità e i mezzi per prendersi questo grosso impegno. Forse sarebbe giusto dare loro più fiducia per quanto riguarda i rapporti di coppia, dopo averli educati correttamente riguardo tutte le precauzioni del caso: proibire un atto del tutto naturale potrebbe non giovare alla loro integrazione nella società.

Tuttavia, in un mondo in cui la socializzazione – che sia l’inizio di una semplice amicizia o  di una storia d’amore – avviene prevalentemente attraverso la tecnologia e i social, bisognerebbe davvero chiedersi se sia da considerarsi più “normale” chi, per mancanza di coraggio, non si presenta direttamente a qualcuno, perché inviare un’amicizia su Facebook è più facile, o chi, senza alcun timore, manifesta apertamente tutto il suo amore alle persone a cui tiene.

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