Il caso di omertà più eclatante: Stefano Cucchi

Dopo 9 anni dalla sua morte, il caso di Stefano Cucchi diventa più attuale che mai. A pochi giorni dalla confessione del carabiniere che quella notte era lì, mentre un uomo veniva privato della sua dignità, si riaccendono altre polemiche, mentre la sua famiglia ricomincia a chiedersi “perché”.

Stefano Cucchi venne ucciso il 22 Ottobre 2009, soltanto 7 giorni dopo essere stato arrestato perché, durante una chiacchierata in auto con un amico, venne sorpreso dai carabinieri, nei pressi di Roma, con diversi grammi di sostanze stupefacenti. La sera stessa, parliamo del 15 Ottobre 2009, venne perquisita la casa dove viveva con i genitori e venne immediatamente portato in questura. Poco dopo essere arrivato lì, accadde il fatto: Stefano venne picchiato a sangue da due carabinieri, a quanto dice Francesco Tedesco, carabiniere (come detto presente) che dopo 9 anni ha deciso di confessare. Cucchi, comunque, decise di rimanere in silenzio e non dire la verità. Trascorse la sua ultima settimana di vita in carcere, dolorante, con ferite visibilissime e tra l’indifferenza di tutti. L’accertamento sulla morte di Stefano ancora non c’è, qualcuno parla di anoressia, di problemi di salute che il ragazzo aveva prima di entrare e chi, come Ilaria,  la sorella, accusa le percosse subite della sua morte.

Durante quei sette giorni trascorsi in carcere, Stefano rifiutò di mangiare e di essere curato, ma, allo stesso tempo, gli venne negato il diritto di ricorrere al proprio legale e, cosa ancor più importante, di incontrare la famiglia. Inizialmente Stefano presentava delle ferite al viso, ma lui riconduceva la causa ad una brutta caduta sulle scale e medici, carabinieri, giudici, gli credettero. Pochi giorni dopo il ragazzo venne visitato più approfonditamente e risultò avere due vertebre rotte, ma lui parlò ancora della brutta caduta sulle scale e tutti gli credettero ancora. Chiunque abbia guardato il film “Sulla mia pelle”, diretto da Alessio Cremonini uscito il 12 Settembre 2018, interpretato da Alessandro Borghi, si rende immediatamente conto che, anche la più terribile caduta, non potrebbe mai causare certi segni sul corpo. Ed è ciò di cui si resero conto anche i genitori appena venne concesso loro di salutarlo per l’ultima volta, ormai sul lettino dell’obitorio. Ebbene sì, dalla sera dell’arresto ai genitori fu letteralmente proibito di entrare in contatto con lui. Le guardie in carcere hanno ostacolato qualsiasi avvicinamento tra i genitori e il figlio e tra quest’ultimo e il suo avvocato. A causa di ciò, in prigione Stefano rifiutava continuamente le cure, finchè non gli sarebbe stata lasciata la possibilità di parlare con loro e così facendo andò incontro alla morte.

Dal momento della sua morte, Ilaria Cucchi, la sorella, ha iniziato la sua battaglia per trovare giustizia e verità. Grazie alla sua dedizione, il caso del fratello ha scatenato in Italia un’importante attenzione sulla questione dei diritti umani e civili, da esercitare soprattutto in pubblico. Ilaria ha fondato l’associazione “Stefano Cucchi Onlus” proprio col proposito di dar voce a tutti “gli altri Stefano” che ci sono in Italia e che, purtroppo, si trovano vittime di abuso di potere da parte di chi esercita una violenza ingiustificata. L’associazione è nata proprio con lo scopo di proteggere chi si trova in una situazione in cui, oltre che privato della libertà, sia privato anche di qualsiasi altro diritto; Ilaria, inoltre, sta cercando di lavorare, affinché il governo decida di introdurre il reato di tortura, ma il percorso si profila lungo, a causa di alcune personalità politiche che ne ostacolano l’attuazione.

Il carcere ha subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli. Si è passati da un’istituzione pensata come luogo punitivo e di torture ad un’istituzione che favorisca il recupero sociale dei detenuti. Questo è possibile tramite percorsi riabilitativi che hanno il fine di reintegrare nella società, attraverso lo studio e sessioni lavorative a volte retribuite, in modo che, chiunque decida di farlo, riceva anche una gratificazione. La prigione, però, ha anche il dovere di garantire ai detenuti il rispetto dei diritti umani e civili, perché, seppur un individuo sia o meno un criminale, rimane comunque un essere umano, che, attraverso i percorsi riabilitativi, può riscattare sé stesso. Il carcere deve anche assicurare ad ogni prigioniero un rapporto continuo con la famiglia, in modo che il riscatto personale possa riuscire avendo l’appoggio dei propri familiari, che secondo gli psicologi è fondamentale. Diritto che a Stefano, come abbiamo visto, è stato negato.

Voltaire diceva che “il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni” e qui non si vuole generalizzare degradando e sottostimando le carceri italiane, così come non si vuol sostenere che ogni carabiniere, che si occupa della sicurezza del suolo italiano, abusi del proprio potere e della propria autorità. Il fatto, però, che in uno stato democratico, civilizzato e attento alla salvaguardia della singola persona, possano capitare ancora casi simili è impensabile. Cucchi non è l’unico ragazzo picchiato in prigione; il 29 settembre 2008 un ragazzo di appena 22 anni, Emmanuel Bonsu, venne letteralmente placcato da otto agenti in borghese, mentre aspettava l’inizio delle lezioni serali, soltanto perché aveva cercato di scappare, impaurito, in quanto aveva scambiato gli agenti in borghese per dei malintenzionati. Una volta portato in caserma, diversi carabinieri lo schernirono con aggettivi razzisti. Nel caso di Emmanuel, la giustizia sembra aver fatto il suo corso, infatti chi ha commesso queste aggressioni è stato punito.

Ricordiamo poi il caso del quarantatreenne Giuseppe Uva, portato in carcere la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 e morto la mattina seguente, dopo essere stato in un ospedale a Varese per un trattamento sanitario obbligatorio. Da quel momento la famiglia ha cercato di far luce su ciò che è successo. I due carabinieri e i sei agenti della polizia coinvolti vennero però assolti.

Tentando di ampliare l’analisi, un altro fenomeno ben noto agli occhi di tutti è l’aggressività manifestata da alcuni agenti di polizia americani durante il servizio. I casi di violenza maggiormente registrati sono ai danni della popolazione afroamericana, ma tralasciando qualsiasi motivazione razziale, un dato balza subito all’occhio: 12703 casi su 13233 che riguardavano presunte violazioni di diritti civili non sono stati approfonditi dalla giustizia americana. La questione in realtà è molto complicata, poiché è sempre molto difficile per i giudici trovare prove sufficienti ad incriminare un agente di polizia, provando che  abbia intenzionalmente agito con violenza durante il fermo di una persona.

Diversi studi sono stati condotti da psicologi e giuristi per capire in che condizioni si possa stabilire quando ci si trova in presenza di regolare attuazione di procedure necessarie durante l’arresto di un individuo e quando invece il protocollo non viene rispettato e la violenza impiegata risulta essere eccessiva. Si tratta di un confine assai labile, che induce a riflettere su come cercare di distinguere i due modi di usare la forza: legittimo oppure eccessivo.

Per concludere, l’omertà non deve, o meglio, non dovrebbe ostacolare il corso della giustizia, perché, evitando di denunciare l’ingiustizia, non si potrà mai abbattere quel muro che da troppo tempo impedisce ai familiari delle vittime di far chiarezza su ciò che realmente è accaduto mentre i loro cari si trovavano in custodia dello Stato. Probabilmente, se ci fosse più empatia da parte di dottori e forze dell’ordine che in quei sette giorni avevano in cura ed in custodia Stefano Cucchi, oggi forse sarebbe un giovane adulto di 42 anni.

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