L’arte tecnologica dei Millennials: Jordan Wolfson

La tecnologia è entrata prepotentemente a far parte delle nostre vite, rivoluzionando ogni campo. Anche gli artisti si sono adeguati a questo nuovo strumento: Jordan Wolfson non è da meno.

Nato nel 1980 a New York, Wolfson fa un uso massiccio della tecnologia attraverso la pittura digitale, le sculture animatronic e la realtà virtuale per trattare temi delicati e attuali, come gli argomenti sociali, la violenza, l’intrattenimento e l’influenza delle nuove tecnologie.

«Avevo 16 anni quando ho iniziato a dipingere nello scantinato dei miei genitori: il mio cervello è cambiato. La mia ossessione è diventata quella di essere artista. Sapevo esattamente non tanto cosa avrei fatto, ma cosa volevo essere».

Wolfson, infatti, è diventato un artista: moltissimi paesi hanno accolto le sue mostre, da New York a San Francisco, da Londra a Torino, vincendo il Cartier Award nel 2009.

Nel 2009 espone ‘Con Leche’, un video di una ventina di minuti in cui delle bottiglie di Coca Cola Diet riempite di latte camminano. Una voce in sottofondo legge i risultati delle ricerche fatte su internet: dai rifiuti al congelamento, da Kate Moss e la cocaina all’omosessualità, interrompendo la lettura solo quando l’artista le dà ordine di cambiare la velocità.

Sotto questo breve video c’è un significato molto ampio che risponde alle domande che lo spettatore si sta ponendo guardandolo: perché la voce fuori campo dice cose sconnesse tra di loro? Perché le bottiglie di coca cola sono piene di latte?

Tutto appare senza un filo logico che in realtà è fortemente presente: le parole pronunciate dalla donna vengono prese come verità perché presenti su internet come la pubblicità della Coca Cola considerata vera diet ma in realtà ingannevole perché ha capovolto la concezione di ‘diet’.

Nella mostra ‘Animation, mask’ del 2011 è presente una clip di 12 minuti che ha come protagonista un omino animato che incarna la tipica figura, piena di pregiudizi fisici, dell’ebreo.

Il personaggio animato guarda sempre nello stesso punto ma incarna moltissime personalità attraverso l’espressione del suo volto e delle sue voci: questo crea nello spettatore una confusione tale che ogni tentativo di chiarezza è annullato dalle molte maschere e dalle molte voci.

Queste installazioni colpiscono il pubblico ma non di più di quanto poi facciano le sculture animate. Wolfson si iniziò ad interessare all’animatronic art dopo la sua esperienza alla Hall of Presidents di Disney World.

La sua prima scultura animata è ‘Female Figure’ (2014). Queste particolari opere di Wolfson sono molto costose: Female Figure è stata creata con mezzo milione di dollari.

Si presenta allo sguardo del visitatore una scultura animatronica ad altezza umana di una donna. Balla con il suo vestito bianco, scarno, semitrasparente e gli stivali alti fino alla coscia davanti a uno specchio appeso sul muro. La figura è letteralmente infilzata da un palo, strumento del suo mestiere, che corre orizzontalmente dallo specchio fino alla sua pancia.

La donna meccanica mostra le spalle ma è dotata di un software di riconoscimento facciale e di sensori di movimento che attivandosi quando qualcuno si avvicina fanno in modo che gli occhi del robot guardino in profondità gli occhi dello spettatore: in questo modo la donna mostra il suo volto coperto da una maschera verde da strega.

La Female Figure che prima sembrava una bellissima ballerina sciolta nei suoi movimenti, diventa un mostro, incarnando il binomio di attrazione-repulsione ed esponendo la condizione dell’uomo: ridotto ad una maschera, l’uomo contemporaneo è costretto ad eseguire le performaces che la società gli richiede, incollato a uno specchio (reale o digitale).

‘Colored Sculpture’ (2016) è la seconda scultura animata di Wolfson: un burattino dai capelli rossi, occhi azzurri legato a grosse catene che lo alzano in aria per poi ribatterlo più volte a terra e trascinarlo. Ha un sorriso ambiguo per l’innocenza che dimostra: dolore e cattiveria si intrecciano.

L’artista ha pensato anche per questa figura un riconoscimento facciale in modo da seguire lo sguardo degli spettatori e attraverso fibre ottiche gli occhi azzurri del burattino proiettano immagini e filmini di Wolfson sulla società consumistica contemporanea.

Intanto la voce del burattino elenca 18 cose che vorrebbe fare allo spettatore: ‘…four to leave you, five to touch you, six to move you, seven to ice you, eight to put my teeth in you, nine to put my hand on you, ten to put my hand in your hair…’  finendo  con «SPIT EARTH». A questo punto gli occhi scompaiono dalle orbite e vengono sostituiti da queste due parole: la vittima divental’aggressore, chi prima faceva pietà adesso fa paura.

Il burattino, poi, ricomincia ad essere aggredito in maniera sempre più violenta sulle note di ‘When a Man Loves a Woman’ di Percy Sledge.

Wolfson ci avvicina ai grandi problemi della società (come in ‘Real Violence’, dove la violenza è un punto centrale) e mostra attraverso la sua arte tecnologica, fatta di clip, video, animazioni e robot che siamo tutti burattini, trasportati da delle catene che non ci lasciano liberi: senza possibilità di scelta con un lato oscuro nascosto che potrebbe trasformarci da vittime ad aggressori.

La nuova arte dei millennials sarà in grado di rivelare i reali aspetti della società e dell’uomo?

‘Wolfson makes you feel like we’re all moments away from staggering violence and moral decrepitude. It’s within us, aching and begging to burst out. Morality is a veil that can drop at any second. We’re constantly surrounded by physical and emotional cruelty. […]. And the worst thing is, you’ll feel yourself reflected in all of it, and you won’t like what you see’.

(Wolfson ci fa sentire come se fossimo tutti a un passo dall’impressionante violenza e dalla decadenza morale. È dentro di noi, dolorante e implorante di scoppiare. La moralità è un velo che può cadere in qualsiasi momento. Siamo costantemente circondati da crudeltà fisica ed emotiva. […]. E la cosa peggiore è che ti sentirai riflesso in tutto questo e non ti piacerà ciò che vedi).



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