L’ emigrazione interessa solo il Sud Italia?

L’emigrazione è, per definizione, il fenomeno che spinge un individuo o più individui a spostarsi dal proprio luogo di origine verso un altro luogo. Le ragioni del trasferimento possono essere diverse – ambientali, sociali, politiche, economiche – e sono solitamente intrecciate tra loro.

Uno degli episodi di emigrazione più interessanti nella nostra nazione è sicuramente il dislocamento che riguardò la popolazione del sud dell’Italia negli anni ’60. Il popolo decideva di andare incontro a un destino che non sapeva cosa avrebbe potuto riservargli, partiva con una valigia di cartone contenente pochi oggetti, tanti sogni, speranze e ambizioni. La meta principale era il cosiddetto “triangolo industriale” ai cui vertici c’erano le città di Torino, Genova e Milano.

Gli uomini smettevano di essere contadini per entrare nel mondo dell’edilizia, in cui era richiesto un numero sempre maggiore di operai. Le condizioni di lavoro iniziali erano di sfruttamento vero e proprio e sembra impossibile credere che qualcuno potesse abbandonare i propri affetti e la propria terra d’origine per trovare e accettare queste situazioni lavorative, in un luogo sconosciuto e soprattutto privo delle amicizie più care. Possiamo “giustificarlo” immaginando quanto potesse essere grave il grado di disperazione in cui, invece, si trovavano al sud del Bel Paese.

Per i meridionali la calamita verso il settentrione era l’industria che costituiva il più vivo elemento di differenza rispetto al mezzogiorno, ancora fortemente legato all’agricoltura e alla pastorizia. La volontà meridionale di spostarsi verso il nord era approvata anche dalle istituzioni che aspiravano al pareggio delle condizioni economiche tra nord e sud.

Molti, però, non sanno o non ricordano che il fenomeno migratorio non ha interessato solo il meridione, al contrario le prime migrazioni sono partite dalla zona di Comacchio, dall’Abruzzo e dal Veneto. L’Abruzzo era stato per lungo tempo isolato dal resto del Paese, con l’Unità d’Italia e, poi, con l’introduzione del servizio di leva obbligatorio, con lo svilupparsi del brigantaggio e con la crisi del sistema agricolo si era trovato in difficoltà. I suoi abitanti si erano, dunque, uniti alla moltitudine di uomini che, nello stesso periodo, si muovevano alla ricerca di una migliore condizione di vita e di lavoro.

Forse più particolare è il caso dell’emigrazione veneta. Tutto iniziò con la fondazione della Società Bonifiche Sarde che si proponeva di procedere a una bonifica idraulica e agraria di una zona molto estesa della costa centro-occidentale della Sardegna. Alcune famiglie venete negli anni ’20 furono spedite in Sardegna per sottrarle alla tensione sociale della pianura padana di quegli anni e perché nell’isola si presentava una grande quantità di lavoro. I veneti sono riusciti a trasformare Arborea in un’importante realtà economica. Essa è divenuta un piccolo Veneto in Sardegna, in cui nelle famiglie si parla ancora il dialetto veneto e si mantengono molte tradizioni tipiche della regione d’origine.

Sappiamo che anche oggi il fenomeno dell’emigrazione è molto presente in Italia, in quasi tutte le regioni. Qualcuno decide di spostarsi direttamente all’estero e qualcun altro sceglie, invece, di restare in Italia ma di allontanarsi, comunque, dal proprio “suolo natìo”. Come in passato la speranza di trovare lavoro e le ragioni economiche non sono le sole cause dello spostamento: oggi l’ambizione di ottenere un lavoro è accompagnata dalla forte sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e anche dalla difficoltà di riuscire a mettere in atto quanto studiato, motivo per cui spesso sono proprio i neolaureati a muoversi verso nuovi luoghi.

Questo interessa, senza dubbio, in misura maggiore i giovani meridionali che, però, condividono con i giovani settentrionali la stima verso le proprie capacità, che dovrebbero avere l’occasione di mostrare e applicare, anche per giovare alla ricchezza del proprio paese. La differenza per i “nuovi migranti” meridionali sta nelle maggiori e migliori opportunità lavorative che essi possono trovare altrove, lamentando la bassa remunerazione a cui sono soggetti al sud e la sfiducia nella possibilità che la classe dirigente locale possa riuscire a migliorare la situazione.

I giovani settentrionali che scelgono di emigrare, invece, solitamente decidono di lasciare la propria patria per approdare all’estero, in un nuovo paese, in una nuova terra. I motivi dello spostamento sono diversi, non solo la speranza di lavorare in condizioni migliori e con una migliore retribuzione, ma anche, e in questo si legano ai meridionali, lo scetticismo verso la possibilità che possa realizzarsi un miglioramento in breve tempo.

Se guardiamo i dati rileveremo che sono sicuramente diminuite le emigrazioni dal sud verso il nord del paese, ma che sono nettamente in aumento gli spostamenti verso l’estero. A partire dalla crisi del 2008 gli italiani che lasciano la patria sono aumentati sempre di più, e oggi il numero ammonta a circa 250.000 persone: siamo, dunque, quasi ai livelli del dopoguerra, durante il quale il fenomeno interessava poco meno di 300.000 persone. La notizia che i meridionali non emigrino più a settentrione è in controtendenza non solo con quanto sta avvenendo con gli spostamenti verso l’estero, ma anche con gli spostamenti interni all’Italia, che ormai sembrano verificarsi all’interno delle tre grandi aree dello “stivale”. Infatti sono stabili o in leggero aumento le migrazioni all’interno delle regioni settentrionali, centrali e meridionali.

Quali sono le mete delle dislocazioni più “gettonate”? La Germania e il Regno Unito sono le mete preferite, ma numerosi spostamenti interessano anche la Francia e la Svizzera, mentre un netto calo riguarda l’America del Sud. Una sorpresa è la Spagna, che negli ultimi anni ha visto molti italiani tra i nuovi immigrati.

Quanto agli studenti meridionali che si spostano al centro-nord solitamente approdano nelle stesse grandi città dei loro antenati del dopoguerra: Torino, Milano, Genova. A queste possiamo anche aggiungere, però, Verona, Pisa, Bologna e Roma.

Così come ad ogni azione corrisponde una reazione, questi spostamenti sono seguiti da determinate conseguenze che interessano sia il paese che si lascia, ma anche quello in cui si approda. In entrambi i casi si parla di conseguenze sia positive sia negative. Per quanto riguarda il paese da cui si parte, il risultato positivo, come in passato, consiste nel fatto che sul piano economico possono verificarsi importanti rientri di denaro, che solitamente è impiegato per il sostentamento della famiglia o per l’acquisto di beni di consumo; c’è anche una ripercussione avversa che consiste nella perdita di una determinata percentuale della popolazione, oltre alla sofferenza psicologica delle famiglie che perdono componenti. Uno degli esiti negativi per le regioni del sud lasciate dai loro giovani studenti è l’effetto negativo che la perdita può avere sul rendimento delle università meridionali e soprattutto sulle potenzialità di sviluppo di quell’area.

Il paese in cui si arriva, al contrario, riceve una moltitudine di persone che contribuiscono al buon andamento dell’economia locale, soprattutto accettando lavori rifiutati dalla popolazione del posto perché considerati più duri, maggiormente faticosi e rischiosi, ma meno retribuiti degli altri. Inoltre, si crea una popolazione multietnica che combina diversi costumi e diverse culture e tradizioni: questa multietnicità oltre a portare ricchezza, è però spesso all’origine anche di pregiudizi sociali o atteggiamenti razzistici, sia da parte della popolazione locale che dai nuovi immigrati.

Dunque, che si tratti di ragioni economiche, politiche, sociali, ambientali o religiose, non è – e non è mai stato – solo il sud a spostarsi verso il nord o direttamente verso l’estero: gli scambi riguardano tutto il nostro Paese.

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