Il disastro del Vajont, dopo la notte del 9 ottobre

Poco dopo le 22:39 della notte del 9 ottobre 1963, quello che resta di Longarone, Pirago, Rivalta, Vajont, Villanova e Faè è solo un piccolo gruppo di case nella parte nord della vallata veneta. Il resto è stato completamente spazzato via dai 25 milioni di metri cubi d’acqua e detriti generati da una frana di 270 milioni di metri cubi di rocce e terra che ha fatto tracimare il lago della diga del Vajont, situata all’imboccatura della valle. L’onda prosegue il suo cammino nella valle del Piave fino a Belluno, danneggiando gravemente anche Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Sulle sponde del lago della diga un’altra onda colpisce Erto e Casso, comune posizionato poco sopra la diga, risparmiando il grosso dei due paesi ma distruggendo intere borgate posizionate sulle rive del lago.

La diga del Vajont dopo la sua costruzione

L’allarme viene dato immediatamente, a Belluno si comprende subito che è successo qualcosa di grave; la corrente è saltata in gran parte della valle, il Piave scorre più carico che mai e trasporta detriti, pezzi di edificio, cadaveri di bestiame e di esseri umani. La mobilitazione è generale, tuttavia si fatica ad arrivare nel luogo del disastro. Il ponte sul fiume Maè è impraticabile e poco dopo Pirago la statale 51 è coperta di fango, rocce e detriti, gli automezzi non riescono a passare e si deve proseguire a piedi. A Longarone è presente una stazione ferroviaria, ma l’onda ha distrutto l’intera tratta fin quasi a Ponte nelle Alpi, quel che resta dei binari giace accartocciato e ripiegato su se stesso, così come i tralicci dell’alta tensione. Per questo motivo, oltre alle forze di polizia e ai pompieri locali, i primi ad arrivare sono i soccorsi provenienti dal nord del bellunese, in particolare i vigili del fuoco di Pieve di Cadore, di Auronzo e dalle località della val Zoldana e dell’Agordino; e il battaglione Cadore del 7° alpini (stanziato anch’esso a Pieve di Cadore). Tuttavia lo spostamento dei sopravvissuti che hanno bisogno di cure è difficoltoso, le strade non sono sicure e in zona non vi sono aeroporti.  Fondamentale è quindi il ruolo giocato dalla SETAF, le forze americane stanziate a Verona, le uniche a disporre di elicotteri adeguati per il trasporto di persone, viveri e beni di prima necessità, e in grado di fare la spola tra la valle ed Erto e Casso, rimasti isolati.

Se all’inizio la richiesta dall’allarme è piuttosto vaga (si parla di una diga crollata sopra a Belluno e centinaia di morti), solo arrivati sul posto i soccorritori e i giornalisti si rendono conto della gravità di quello che è successo. Un’intera valle è stata spazzata via, prima dallo spostamento d’aria generato dalla massa che ha superato la diga, poi dall’onda di acqua e detriti. A Longarone si sono salvate poco più di dieci abitazioni sulle oltre 350 presenti, a Pirago è stata spazzata via ogni cosa escluso il campanile della chiesa. I pochi superstiti si aggirano per la piana coperta di detriti e macerie in cerca di amici e parenti. Al centro della valle si è formata una depressione con un’enorme pozza d’acqua, I primi soccorsi si svolgono al buio e con l’aiuto di torce, a causa della mancanza della corrente. Solo alle prime luci dell’alba ci si rende conto che la diga, ai tempi la più alta al mondo nel suo genere, non è crollata, non si è mossa di un millimetro ed è ancora lì perfetta a svolgere il suo compito. Dietro di lei si è però formata una nuova piccola montagna nel lago del torrente Vajont, causata da un’enorme frana. Nel frattempo continua a precipitare acqua dalla struttura, e da Ponte nelle Alpi in su, nonostante il cielo sereno i mezzi devono mettere in funzione i tergicristalli perché l’acqua è ancora sospesa nell’aria. L’opera dei soccorritori prosegue per settimane. I dati ufficiali parlano di 1917 vittime, tuttavia non si tratta di un numero certo, non tutti i cadaveri verranno recuperati e molti non saranno riconoscibili.

Longarone. A sinistra, prima del disastro. A destra, dopo il 9 ottobre

Nei giorni successivi arrivano volontari e aiuti da associazioni di tutta Italia e viene dato il via a  diverse raccolte fondi, tra cui spiccano quelle realizzate dalla Rai e da diversi giornali italiani, oltre che dalla Croce Rossa francese. Arrivano messaggi di condoglianze da leader di Paesi occidentali, politici e personaggi noti si recano nelle zone colpite per offrire sostegno. Tra questi vi sono anche il presidente del consiglio Giovanni Leone e il presidente della repubblica Antonio Segni. Il primo promette che “giustizia sarà fatta” e il secondo dichiara durante il discorso di fine anno agli italiani:

alle vittime ed ai superstiti del disastro del Vajont vada, oggi, ancora il nostro commosso ed affettuoso pensiero; ai superstiti, in particolare, il rinnovato impegno che non saranno tralasciati gli sforzi per aiutarli a ricostruire la loro vita”.

Piano piano si comincia quindi a ricostruire, arrivano finanziamenti, la vita nella valle del Piave e attorno al Vajont ricomincia a scorrere.

Oppure no, perché le cose non sono così semplici, né così pulite. Perché la tragedia del Vajont non si ferma alla notte del disastro, ma prosegue oltre. L’11 ottobre si insedia una commissione di inchiesta con il compito di mettere in luce i fatti che hanno portato alla tragedia. Nel frattempo la quasi totalità dei media italiani e dei grandi nomi della stampa dichiarano all’unanimità che si è trattato di “una fatalità” e di un disastro naturale imprevedibile. Quei giornali di sinistra, in particolare l’Unità, che cercano di evidenziare come si trattasse di una catastrofe annunciata e prevedibile vengono tacciati come “Sciacalli […], mestatori, fomentatori di odio”. Eppure sono anni che una giornalista si occupa della diga, prima degli abusi di potere da parte della SADE (Società Adriatica di Elettricità, costruttrice della diga e proprietaria prima della nazionalizzazione) verso gli abitanti di Erto e Casso, poi della pericolosità della stessa.

La giornalista si chiama Tina Merlin, ed è un ex partigiana bellunese. Tuttavia siamo nel 1963, e la Merlin non è una grande firma, è solo una corrispondente di provincia. Inoltre è una donna in un settore lavorativo dominato dagli uomini e, per finire, non scrive per un giornale “neutrale” ma per l’Unità, organo del PCI. I sui articoli denunciano in anticipo la situazione pericolosa in cui versano i territori intorno alla diga, e uno di questi “La  SADE spadroneggia ma i montanari si difendono” (1959), comporta la denuncia della SADE stessa verso Tina Merlin e il direttore dell’Unità per “notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”. (Entrambi verranno pienamente assolti dal tribunale di Milano, un anno e mezzo dopo). Sono anni che i cittadini di Erto e Casso denunciano i rischi e i pericoli che corrono a causa della diga, eppure rimangono inascoltati. Solamente l’Unità e qualche esponente del PCI dà loro sostegno. È però solo dal 1962 che si inizia a temere per l’incolumità di Longarone e dei paesi situati nella valle del Piave.

Nel frattempo i lavori della commissione e le inchieste giornalistiche vanno avanti; si scopre che la SADE sapeva del rischio frana, e dal 1961 in poi aveva svolto diverse simulazioni per verificarne gli effetti. Inoltre, ha tenuto nascosto o deliberatamente mentito su alcuni dati, in modo tale da ottenere più in fretta i permessi per costruire e invasare. Anche da parte delle istituzioni pubbliche vengono rivelate quiescenza e una certa negligenza. Nel

La diga vista da Longarone

frattempo Mario Fabbri, giudice del processo istruttorio, si rende conto che i periti incaricati di verificare la prevedibilità della frana non stanno agendo in maniera neutrale, e chiede una seconda perizia, in cui vengono confermate la prevedibilità della stessa e le tesi di Tina Merlin. Nel novembre 1968 inizia finalmente il processo, che gli avvocati difensori degli imputati riescono a far spostare da Belluno a l’Aquila. Alla fine dell’iter giudiziario, tre anni dopo, su 11 imputati, di cui 2 deceduti, solo 2 vengono riconosciuti colpevoli, e sconteranno, rispettivamente, solo due anni di carcere il primo e dieci mesi il secondo. Soltanto nel 2000 viene stipulato un accordo per il pagamento dei danni da parte di Enel (che è subentrata alla SADE all’inizio del 1963 dopo la nazionalizzazione), Montedison (che ha acquisito la SADE) e Stato italiano ai paesi colpiti.

Nemmeno i processi di ricostruzione e risarcimento si svolgono senza problemi. Se Longarone, a causa della sua posizione lungo la statale, viene ricostruita abbastanza in fretta, lo stesso non si può dire dei paesi minori, in particolar modo di Erto e Casso, situati in una posizione troppo rischiosa. Sopravvissuti al disastro del Vajont (hanno avuto “solo” 159 morti) vengono quasi annientati negli anni successivi. Gli abitanti vengono sfollati, sparpagliati in altri Comuni tra Veneto e Friuli, anche a diversi chilometri di distanza. Molti di loro scelgono di rimanere in questi luoghi, altri si spostano a Vajont, un nuovo paese creato apposta per ospitare i sopravvissuti, una parte invece rientra a Erto clandestinamente. Viene promessa la creazione di centri industriali nelle zone disastrate, ma in realtà saranno limitate alla valle del Piave. Anche gli aiuti inviati vengono amministrati in malo modo. Solo una parte arriva alle popolazioni colpite, somme ingenti finiscono in tasca a privati, gran parte della colletta realizzata dalla RAI finisce in banche svizzere. Parte dei risarcimenti Enel svanisce nel nulla. Molti dei sopravvissuti, specialmente quelli residenti in piccoli Comuni o frazioni, vengono truffati e convinti a vendere le proprie licenze commerciali per pochi soldi, a individui che le sfrutteranno per ottenere agevolazioni. Molti, spaventati, accettano la transazione proposta da Enel, un risarcimento in soldi per i propri caduti in cambio della rinuncia a costituirsi parte civile.

Ma ancora, non è solo questa la tragedia del Vajont. Perché se dopo la sciagura si promette giustizia e impegno affinché ciò che è avvenuto non accada mai più, questi propositi vengono presto ignorati. Lo stesso ex-presidente Leone diviene capogruppo del collegio degli avvocati a difesa di SADE ed Enel. Vengono alla luce la malafede e i procedimenti illegali attuati dalla SADE pur di ottenere profitto durante la costruzione della diga, lo sfruttamento di piccole comunità da parte dei monopoli industriali fatto passare per progresso, la tendenza a ignorare i rischi e i dati scientifici quando intaccano le possibilità di guadagno (diverse perizie avevano rivelato alla SADE della presenza di una paleofrana pronta a precipitare nella diga, che era stata costruita in un sito geologicamente inadatto per le sue funzioni), il connubio tra Stato e privati che si coprono a vicenda, aziende che operano come “uno Stato nello Stato”. Sono tutte lezioni che avremmo dovuto imparare dal disastro del Vajont, eppure anche oggi, a 55 anni di distanza, si tratta di problemi ancora attuali.

FONTI

Discorso del presidente Segni

Indro Montanelli, La Domenica del Corriere, novembre 1963

http://www.vajont.net/

http://www.sopravvissutivajont.it/

Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, Cierre Edizioni, 1983

Stefano Gambarotto, Vajont 9 ottobre 1963, cronologia di una morte annunciata, Editrice Storica, 2013

Bepi Zanfron, Vajont, 9 ottobre 1963 – cronaca di una catastrofe, Zanfron Giuseppe Editore, 2001

Mauro Corona, Vajont: quelli del dopo, Oscar Mondadori, 2006

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.