La paura del divenire: Il Programma, l’esordio di Davide Staffiero

Solitamente, quando si legge un romanzo, la prima cosa che ci si aspetta è la presentazione del personaggio principale, il cosiddetto protagonista. La seconda, invece, quasi essenziale quanto la prima, è l’incontro del tale protagonista con un altro personaggio, sia esso un aiutante o un antagonista. Le aspettative del lettore, sufficientemente nutrite da una vasta letteratura più o meno curata, si articolano sempre su uno schema basilare di trama, le cui travi fondanti certo possono allargarsi o stringersi, addirittura ribaltarsi, a seconda delle caratteristiche di genere e degli scopi della storia. Ma mai vengono cancellate del tutto, per essere rimpiazzate da qualcos’altro.

Insomma, scrivere un libro che si incentra unicamente su un personaggio i cui rapporti non solo con gli altri, ma perfino con l’esterno si riducono progressivamente fino allo zero, è un’impresa ardua, se non impossibile. E se anche l’autore vi riuscisse, vincendo la noia, la ripetitività e l’abisso risucchiante che costituisce il viaggio a senso unico in una sola mente artificiale, non convincerebbe mai la sua controparte, ovvero il lettore, a seguirlo in quel viaggio assurdo, fino all’ultima pagina.

E invece Davide Staffiero c’è riuscito; e l’ha fatto in modo magistrale.

Il Programma, dal punto di vista generico, sembra situarsi a metà tra un thriller psicologico e un horror esistenziale: i rimandi intertestuali sono chiari, a partire dalle epigrafi all’insegna di Dostoevskij e Lovecraft, passando per il nome stesso del protagonista (Bloch, un chiaro riferimento all’omonimo autore del romanzo che ha ispirato uno dei capolavori di Hitchcock, Psycho), e finendo in una citazione quasi perfetta de Il cuore rivelatore, di Edgar Allan Poe. La storia che si sviluppa è quella di un ordinario pensionato con «una spiccata predilezione per la rassicurante tranquillità degli spazi chiusi» e un amore indissolubile per «tutto ciò che era immutabile, costante e sempre uguale».

È proprio questa necessità intima di stabilità e di raccoglimento ad averlo spinto all’ideazione del Programma. Una tabella di marcia che scandisce ogni giorno e ogni minuto della settimana in attività ripetitive che prevedono uno spostamento minimo da casa: le uniche trasferte sono quelle verso il bar per la colazione, dal panettiere e al supermercato. Ogni tempistica deve essere scrupolosamente rispettata, e il ritardo di un singolo minuto apre uno squarcio minaccioso di angoscia. La sanità mentale del signor  Bloch dipende unicamente dalla staticità della sua vita. Se il più piccolo particolare viene modificato, tutto il castello si sgretola. Ed è proprio quanto accade un mattino, quando al bar un nuovo cameriere ritarda la sua abituale ordinazione. Il volto del cameriere si deforma, fino a cambiare, a trasformarsi in quello di un mostro.

Terrorizzato, Bloch inizia a effettuare dei vistosi cambiamenti sul Programma, per salvarsi dalla minaccia latente sotto la pelle delle altre persone: niente più bar, niente spesa. Una discesa agli inferi della propria paura, i cui tentacoli riescono a raggiungerlo anche nel luogo più intimo, poiché la sua sorgente non è esterna alla mente, ma connaturata a essa. Così, se anche il finale lascia supporre che le strane visioni, le sensazioni di un pericolo imminente possano trovare un riscontro fisico nella realtà dei fatti, è evidente che il terrore che Bloch prova nei confronti del mondo è collegato alla sua più intima legge, e cioè il continuo divenire delle cose, delle persone.

Il tempo che scorre e che erode la sostanza del mondo e dell’uomo diventa un mostro non percepibile a occhio nudo, ma la cui presenza si avverte di continuo: le sue manifestazioni più inquietanti sono i graffi dietro le porte, le fredde sferzate del vento, gli strani rumori sotto il letto, perfino il gorgoglio dello sciacquone apre uno squarcio sull’abisso di una mobilità disorientante, che minaccia di stravolgere l’identità e ogni argine di sicurezza faticosamente conquistato. Eppure, dal mondo esterno, dalla legge (questa sì, perfettamente immutabile) del cambiamento non si può sfuggire. E il soggetto che, per paura di soccombere, si trincera in una prigione mentale e fisica, dominato dal suo terrore, non può sfociare in alcuna evoluzione, e dunque l’unica logica conseguenza è una decomposizione del corpo, un annullamento dell’io.

L’estremo argine da cui si affaccia il protagonista sarebbe insostenibile da raccontare (e da fruire), senza una buona dose di leggerezza. Ed è proprio questa leggerezza, velata di ironia e di sapore quasi calviniano, a rendere così godibile questo romanzo. Staffiero, pur nella narrazione degli atti più crudi, non perde la gioia di narrare le avventure del suo bizzarro protagonista che, sebbene inizialmente sia tratteggiato con i contorni deformi di una caricatura, pagina dopo pagina acquisisce sempre di più uno spessore umano. Ciò che dona rilievo tragico alla singolare comicità del personaggio è proprio la sua caratteristica più qualificante, la paura.

Non c’è tanta differenza tra il signor Bloch e le persone che siamo e che incontriamo nella vita reale: prescindendo dagli esempi più estremi, come i cosiddetti hikikomori, ragazzi giovani che hanno il terrore di uscire di casa e dunque si rassegnano a vivere nello stretto perimetro del proprio appartamento, è una caratteristica cardine dell’esistenza umana temere il nuovo, il diverso, l’ignoto, l’imprevisto che manda a monte tutti i piani. Tale caratteristica si manifesta oggi in maniera urgente e tuttavia quotidiana, così usuale che quasi non ce ne accorgiamo neppure.

Queste considerazioni conducono alla conclusione che la prima prova letteraria di questo giovane autore è perfettamente riuscita. I difetti sono davvero pochi, certamente derivanti non da una mancanza di talento, quanto da uno stadio espressivo che non ha ancora raggiunto la piena maturità. Per esempio, in certi casi l’ironia del narratore tende all’involontario appiattimento, nello specifico quando si spinge a descrivere i pochi altri esseri umani presenti nella storia oltre a Bloch. Essi non paiono persone reali, piuttosto figurine stilizzate senza una vera e propria autonomia, poiché i loro pensieri e le loro sensazioni, brevemente accennate, si rifanno a un generico quanto uniforme buonsenso condiviso che lascia poco spazio all’individualità del personaggio.

Tutto questo però non annulla la pregevolezza del romanzo. Stupisce la facilità con cui si scorrono le pagine nonostante la difficoltà dell’argomento, la semplicità dell’articolazione della storia e del linguaggio comparata alla densa compagine di significati sottesi alla scrittura. Un libro che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire.

 


FONTI

D. Staffiero, Il Programma, Eclissi, 2018

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