L’arte della vita: un’analisi del capolavoro di Goliarda Sapienza

Come spesso accade, molti romanzi rimangono nascosti in un cassetto chiuso, dimenticati in una polverosa soffitta o nei meandri di una cassapanca. Questo è proprio ciò che è accaduto a L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza. Ultimato nel 1976, rifiutato dai principali editori, vedrà la luce soltanto nel 1998, per Stampa Alternativa. Ignorato dalla critica nostrana, soltanto grazie all’impegno di Angelo Pellegrino viene notato all’estero, dove finalmente gli viene data la giusta attenzione: prima in Germania e poi in Francia, la sua ascesa sembra inarrestabile, fino al momento in cui anche in Italia ci si accorge di questo piccolo gioiello letterario.

La storia è quella di Modesta, nata nel 1900 in una terra povera e isolata come la Sicilia dell’epoca, in un certo senso avulsa dalla più grande realtà italiana ed europea. Modesta è di famiglia povera, ma questo non le impedisce di agire per liberarsi da tutti i vincoli che la tengono legata. Da qui, la sua ascesa sociale che termina al raggiungimento del rango aristocratico, sebbene il mondo stia cambiando precipitosamente e si deteriori progressivamente lo spazio per gli antichi prestigi. Da questa posizione, Modesta assiste distaccata eppure partecipe alle grandi trasformazioni storiche: la Grande guerra, conosciuta attraverso i racconti di chi è scampato all’orrenda tragedia del fronte; il fascismo, che suppura in atti di estrema violenza e nella necessità di tenere nascosti i propri ideali di libertà per sopravvivere; la Seconda guerra mondiale, visualizzata in stormi di aerei che sorvolano la terra con un inquietante ronzio durante la notte, l’esperienza della fame, della prigione, del confino. Poi, una pace che non cambia nulla delle dinamiche di potere cementate dal fascismo, nulla dell’oppressione delle convenzioni sociali che marciscono.

Goliarda Sapienza

Ma sopra di tutto, L’arte della gioia è un romanzo sull’amore, sulla fedeltà verso se stessi, sulla conservazione dell’identità davanti all’altro da sé. Modesta vuole essere libera, e a questo principio rimane coerente per tutta la sua vita. Così, quando raggiunge il rango aristocratico, vende le sue terre per non essere schiava del suo patrimonio, rinuncia ai suoi talenti artistici perché non vuole essere impiegata della sua ambizione, lascia i suoi amanti per non essere sottomessa a passioni distruttive e fini a se stesse. Affamata di vita, stupisce la sua continua apertura verso il nuovo, la sua gentilezza verso gli altri, lo stretto scrutinio cui sottopone la sua persona per sopravviversi e andare oltre ciò che la società detta come valore assoluto.

Dal punto di vista formale, sicuramente si nota come il romanzo sia stato rimaneggiato più volte, poiché non vi è uniformità di stile e di tecnica narrativa. Se inizialmente la trama viene scandita in capitoli imperniati su una narrazione in prima persona, con ellissi regolari e una focalizzazione interna, a partire dalla seconda parte si attua una vera e propria evoluzione stilistica, a tratti irregolare: aumentano le parti dialogate, che si ispessiscono fino a diventare vere e proprie scene teatrali. Qui emerge il talento artistico di Sapienza in quanto attrice e sceneggiatrice, la sua capacità di sviscerare l’interiorità dei suoi personaggi attraverso conversazioni che alternano momenti intimi a riferimenti quotidiani, schermaglie amorose a momenti di tensione. Le parti narrative si asciugano progressivamente, per colmare i piccoli vuoti lasciati dal dialogato, le cesure si fanno meno regolari e nette, sfociando nella figura narratologica della metalessi, piccoli cortocircuiti temporali che disorientano momentaneamente il lettore.

Questo è per esempio il caso della scena tra Nina e Modesta, chiuse in una prigione fascista. Per cercare di allenare i muscoli indolenziti e non sentire i morsi della fame, le due donne fingono di camminare all’aperto, libere sulla spiaggia. Proprio mentre le due parlano, si attua il salto temporale: Nina e Modesta si trovano davvero all’aperto ora, sulla piccola isola in cui il regime le ha spedite in esilio. Così la narrazione di una festa sulla spiaggia, qualche capitolo prima, si trasforma in un racconto iterativo che giunge a comprendere tutti i momenti felici trascorsi davanti al mare da Modesta e la sua famiglia.

Infine, merita un piccolo accenno la lingua utilizzata. Se nelle parti narrative la lingua è un italiano standard, nelle conversazioni lo slittamento verso il dialetto è piuttosto frequente, soprattutto quando impegnato nel dialogo è un personaggio poco istruito. È proprio l’utilizzo puntuale del dialetto a conferire realisticità agli scambi di battute. Come ricordava Bachtin, il romanzo trae la sua forza dalla polifonia delle voci, irriducibili alla visione del mondo dell’autore, e la difformità delle personalità e delle identità trova rilievo proprio sul piano linguistico, poiché il linguaggio diventa il simbolo di un mondo interiore unico e indipendente, quello proprio del personaggio.

Se un difetto deve essere per forza trovato in questo romanzo, forse è quello inerente alla mancata uniformità dello stile, poiché esso non appare studiato in precedenza dall’autrice, ma piuttosto scaturisce da un’evoluzione e un cambiamento in certo senso drastico del progetto autoriale, ipotesi confermata dalle continue revisioni e riscritture cui fu sottoposto il manoscritto prima della pubblicazione. Se infatti la storia di Modesta trae origine da un certo numero di premesse, il suo svolgimento solo in parte ne tiene conto e ne rimane fedele. Tuttavia, ciò non sminuisce affatto la grandezza letteraria di questa opera, con tutta la compagine di significati a essa sottesi. Vale la pena ricordare uno dei passaggi più significativi di tutto il romanzo, la manifestazione più netta della volontà di Modesta di non piegarsi a qualunque regola oppressiva proveniente dall’esterno: questo rifiuto di inchinarsi al mondo definisce lo spessore di questo memorabile personaggio:

«Nessun fulmine cadde sulla mia testa mentre la pioggia fuori continuava a battere sui vetri della finestra. Il mio corpo nudo, accaldato dal piacere, la sentiva scendere lieve. Dolce pioggia d’aprile fra i seni, le anche spalancate ad accogliere quella frescura di primavera. Avevo ritrovato il mio corpo. In quei mesi d’esilio, chiusa in questa corazza di dolore, non mi ero più accarezzata. Accecata dal terrore avevo dimenticato di avere il seno, il ventre, le gambe. Allora il dolore, l’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Erano ladri viscidi che di notte, approfittando del sonno, scivolavano al capezzale per rubarti la gioia di essere viva. […] Ora che avevo ritrovato l’intensità del mio piacere, mai più mi sarei abbandonata alla rinuncia e all’umiliazione che loro tanto predicavano. Avevo quella parola per combattere. E col mio esercizio di salute – ormai lo chiamavo così dentro di me –, nella cappella col rosario fra le dita ripetevo: io odio. China sul telaio sotto lo sguardo spento di suor Angelica ripetevo: io odio. La sera prima di dormire: io odio. Questa fu da quel giorno la mia nuova preghiera.»

 


FONTI

G. Sapienza, L’arte della Gioia, Einaudi, 2008

Bachtin

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