Le nostre anime di notte: l’ultimo romanzo di Haruf

Durante il Festival di Venezia 2017, tra i tanti film presentati, Le nostre anime di notte ha catturato l’attenzione generale per via dei suoi interpreti: Jane Fonda e Robert Redford. Cinquant’anni dopo A piedi nudi nel parco, la coppia porta sul grande schermo una storia commovente e malinconica, tratta da un romanzo di Kent Haruf.

Il nome di Haruf ha stentato a trovare un suo posto nel panorama letterario americano. Il successo arriva abbastanza tardi, a 56 anni, con Canto della pianura (1999) che con i successivi Crepuscolo (2004) e Benedizione (2013) compone un’ideale trilogia. La sua scrittura si inserisce nella linea tracciata dai vari Faulkner, Hemingway, Carver. Una prosa semplice, a volte minimalista, ci racconta le epiche e umili storie della working class di provincia. All’essenzialità dello stile però non corrisponde una semplicità delle emozioni: i personaggi di Haruf non si arrendono all’aridità cui sembrano condannati.

Le nostre anime di notte (2015) è il suo ultimo romanzo, prima della morte. Nell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado, Louis e Addie sono due anziani vedovi a cui la vita sembra aver detto tutto. Eppure, quasi per caso e da perfetti sconosciuti, iniziano una relazione atipica. I due protagonisti infatti si ritrovano regolarmente, di notte, a casa di Addie unicamente per parlare e dormire insieme. Prima di addormentarsi si raccontano le rispettive vite e i drammi che hanno dovuto affrontare. L’abitudine di Louis e Addie ovviamente non può restare celata. La cittadina, quasi come un organismo vivente, si sente colpita nel suo perbenismo. Il tentativo dei due protagonisti di colmare le rispettive solitudini viene ostacolato. Ma il loro amore è prima di ogni altra cosa un casto bisogno di comunicare.

I due personaggi, infatti, hanno alle loro spalle delle storie da raccontare. Nel romanzo veniamo a conoscenza solo di pochi dettagli, seppur importanti, riguardo al passato dei protagonisti. È come se l’essenzialità e l’asciuttezza di queste 160 pagine in realtà contenessero molti altri capitoli, certo invisibili, eppure percepibili nell’icasticità quasi iconografica dei sentimenti e delle situazioni messi in scena da Haruf. Il non-detto è comunque presente ed è la materia di cui sono plasmati i due protagonisti.

La relazione tra Louis e Addie vuole anche essere una ribellione. Di fronte a una società che li vorrebbe già morti e messi da parte, i due ribadiscono le rispettive identità. Non è la semplice filosofia del “non è mai troppo tardi” a motivare i protagonisti, e nemmeno l’ultimo bagliore di una vitalità che rifiuta di spegnersi. Prima si accennava al bisogno di comunicare. Ebbene, in questa storia la comunicazione, il dialogo e lo scambio di esperienze restituiscono ai protagonisti le proprie vite ribadendone l’unicità, seppur umili e per niente straordinarie.

La riscoperta dell’oralità, come più o meno avviene in Conversazione in Sicilia di Vittorini, rinsalda un senso di solidarietà intersoggettivo. Capita spesso, purtroppo, di sottovalutare le vite altrui o semplicemente di ignorarle. Eppure, ciascuno di noi, raccontando la propria vita, potrà dare a essa un valore diverso, delle ulteriori significazioni. Ed è, questo, un altro arcano della letteratura.

Forse il film non potrà restituire la poetica scarna della prosa di Haruf e per forza di cose il medium cinematografico potrebbe insistere maggiormente su altri aspetti. Però non è difficile, leggendo il romanzo, immaginare Louis e Addie con le sembianze di Redford e della Fonda. La scelta del cast sembra azzeccata. Lo spettatore intuirà, dietro ai volti dei due attori segnati dal tempo, l’epica di un passato alle spalle, pur senza vederlo direttamente. Anche se, forse, il rischio di un compiacimento (e compianto) nostalgico è dietro l’angolo.

 



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