Philip K. Dick: quando la fantascienza insegna l’umanità

Conosciuto come padre fondatore della fantascienza, Philip K. Dick avrebbe di che essere orgoglioso se fosse ancora in vita. O forse le continue riedizioni dei suoi libri, le trasposizioni cinematografiche di romanzi e racconti, e quest’anno anche il sequel di Blade Runner, senza il supporto di un’opera letteraria di partenza, gli farebbero storcere il naso.

Sì, perché Dick era un anarchico, un individualista, e rifiutava il sistema in toto. L’etica capitalista che, sosteneva, avrebbe portato gli USA alla degenerazione, così come il comunismo, che riteneva congiurare contro di lui. È complicata la vita di Dick: i frequenti crolli psicologici, l’uso di droghe, il passare da una moglie all’altra, lo rendono una figura tormentata, tanto a livello biografico quanto nelle tematiche che va a toccare nei suoi libri. Ma è lucidissimo nel momento in cui scrive, ha una consapevolezza estrema del momento storico che sta vivendo e delle possibilità della fantascienza in questo contesto.

Sicuramente, il tormento che emana dalla sua figura contribuisce al fascino che si crea intorno alla sua produzione letteraria: dalla sofferenza nasce un mito, e i miti devono proseguire. Di qui la trasposizione cinematografica dei suoi lavori, con il caso di Blade Runner, sicuramente il più in vista. Ma sono ben altre le ragioni per cui la sua letteratura è così apprezzata.

Dick propone una fantascienza filosofica, che ben rappresenta il passaggio dalla modernità al post moderno: la storia definita, in cui una riconciliazione è sempre possibile, cede il passo all’incertezza, il rapporto forma – funzione si rompe. Persino il concetto di uomo viene meno. È il post uomo il protagonista delle sue opere, l’androide. Dick presenta una creatura di laboratorio che si comporta come un essere umano, ma che di fatto non lo è, e ci costringe a riflettere su cosa sia l’umanità, su cosa renda l’uomo unico e irripetibile. La risposta risiede nell’empatia: gli androidi non la possiedono, non si relazionano, non si riconoscono nell’altro. In un momento storico in cui ci rendiamo conto di far parte di una società asettica, che ha perso la cognizione di sentimento, l’androide può farci pensare a ciò che stiamo diventando, e il senso delle cose, che difficilmente nel postmoderno può essere ritrovato nella realtà, emerge chiaramente dalla fiction.

È tutta in questo concetto l’attualità della produzione letteraria di Dick, che si spinge anche oltre e ci propone un ulteriore quesito. Cosa succede quando gli androidi mostrano empatia? Cosa accade se l’uomo non mostra più alcun sentimento? Qual è la differenza fra i due allora? E perché non concedere alle macchine che mostrano sentimenti umani il brevetto di uomini?

A distanza di trent’anni dalla sua morte, Dick è ancora in grado di far sorgere le giuste domande nell’animo dei suoi lettori. Ben vengano allora le continue riedizioni dei suoi libri, le trasposizioni cinematografiche di romanzi e racconti, e i sequel non tratti da opere letterarie; magari gli avrebbero fatto storcere il naso, ma riescono nell’ardua impresa di smuovere quel qualcosa che a volte si chiama sentimento, altre pensiero critico, arrivando dove poco altro è capace di arrivare.


FONTI
Androidi, replicanti e altre vite sintetiche. Da P. K. Dick a Ridley Scott e a Denis Villeneuve, Bookcity Milano 2017, 19/11/2017, Carlo Pagetti, Elio Franzini, Nicoletta Vallorani

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