“Il ritratto ovale” di Edgar Allan Poe

Un tempo indeterminato, un castello e un viaggiatore. Aggiungiamo una notte buia e tempestosa, un vento sferzante, l’aria gelida e il cielo nero, senza una stella. La luna piena.

Questa la cornice di un racconto che parla proprio di quadri e di cornici, di ritratti, di colori, di arte, di sguardi e di espressività.

Torniamo al viaggiatore e al castello, adesso, ma non dimentichiamo neanche per un attimo la cornice. Neanche per un attimo, davvero.

Il castello, nel qual il mio domestico s’era deciso di penetrare a viva forza, anziché permettermi, deplorevolmente ferito com’era, di passare una notte all’aria aperta, era una di quelle costruzioni, indecifrabile miscuglio di grandezza e melanconia, che hanno sì per lungo innalzate le loro rocche eccelse in mezzo agli Appennini[…] Secondo ogni apparenza, esso era stato abbandonato tutt’al fatto di recente. 

Un altro elemento, quindi: il nostro viaggiatore è ferito, malato. Teniamolo a mente, mettiamolo in un cassetto per un attimo ma non buttiamo la chiave. Per adesso, andiamo avanti con la trama. Un viaggiatore malato entra in un castello, prende una stanza, si distende sul letto e si riposa. Comincia a guardarsi intorno: tende, libri, finestre, armadi, dipinti. Dipinti, tantissimi dipinti… Un dipinto, in particolare. Il dipinto di una giovane donna, bellissima lei, bellissimo il quadro, bellissima la situazione: un uomo stanco, spossato, buttato su un letto a contemplare un quadro che gli parla come se fosse un oggetto vivo, presente, pensante e irrimediabilmente, indiscutibilmente magnetico.

Io gettai sul dipinto un rapido sguardo e chiusi gli occhi: il perché non lo compresi bene io stesso. Ma nel mentre le mie pupille rimanevano abbassate, analizzai rapidamente la ragione che mi obbligava quasi di ricorrere a tale espediente. Era questo un movimento involontario per guadagnare tempo e per pensare […] Era una semplice testa, il tutto composto in quello stile che suol chiamarsi stile da vignetta […] e io dovevo poi credere ancor meno che la mia immaginazione, non ancora ben risveglia, avesse preso quella testa per quella d’una persona vivente. 

Una persona vivente: teniamo anche questo in un cassetto per un po’.

Ora, il nostro viaggiatore ha visto il dipinto, ne è rimasto affascinato, ammaliato, è incredibilmente attratto dal viso di quella donna e si mette a cercare spasmodicamente una spiegazione ai suoi sentimenti, alla sua incapacità di staccare gli occhi dal quadro, al motivo che ha portato qualcuno a dipingere un’immagine così bella e significativa. E cercando trova un libro, in cui viene spiegata la storia del dipinto, della donna, del pittore.

Torniamo indietro un secondo. Un primo racconto, un viaggiatore malato in cerca di un posto accogliente entra in un castello, trova una camera, scopre il dipinto e se ne innamora: la cornice della storia. La cornice della storia come la cornice di un quadro che rappresenta il punto d’incontro con l’altra parte della storia che potremmo, con una metafora forzata ma suggestiva, definire come il vero e proprio quadro. 

Quindi, dopo aver scelto, analizzato e sviscerato -speriamo- la cornice, entriamo nel vivo, nel punto centrale, nella tormentata, disperata e disforica storia del quadro.

Una donna bellissima ama un pittore, il pittore ama la sua arte. La donna bellissima e il pittore si sposano, il pittore continua ad amare la propria arte. La donna bellissima inizia a odiare la pittura, a detestare quell’estro che le sottrae la persona amata e la fa sentire inutile, vuota, priva d’importanza. Il pittore ama la propria arte. La donna bellissima è disperata, non riesce ad accettare il fatto che suo marito la tradisca con qualcosa di irreale, di astratto, con l’ispirazione, con il bisogno di continuare a dipingere. Il pittore ama la propria arte ma si rende conto di avere accanto a sé una donna bellissima: decide di dipingerla. La donna bellissima glielo lascia fare, spera forse di ottenere qualche attenzione in più, vuole che il marito si innamori del suo dipinto, freme all’idea che l’uomo che ama possa guardare una tela in cui è impresso il suo viso come ha sempre guardato il suo unico amore: la disforica, euforica, meravigliosa e pericolosa Arte.

Per questo dipinto, il pittore decide di utilizzare una tavolozza d’eccezione: il volto di sua moglie. Ecco quindi che prende il rosa acceso, intenso delle guance e lo butta sulla tela. Poi, gli occhi: via il blu scuro, un blu misto al verde smeraldo, un colore brillante, meraviglioso. Via dal viso della donna, ormai appartiene alla tela. Le labbra: rosse, piene, accoglienti, morbide e rotonde. Non esistono più sul viso di sua moglie, dove appaiono sottili, bianche, respingenti, malate. Esistono solo sulla tela, solo in funzione dell’arte. Il dipinto comincia a prendere forma con i suoi colori femminili, sensuali: rosa, rosso, verde, blu, arancio e la donna perde ogni femminilità, ogni sfumatura cromatica, assume un aspetto pallido, con le occhiaie e il volto scavato. Sempre di più: il dipinto è ormai rosso acceso, un rosso intenso, scuro come il sangue, vivo come l’amore e la donna non ha più neanche la lucentezza del bianco, è sbiadita, un’immagine, un fantasma, non esiste più. Ma il pittore non si ferma, non può farlo, deve arrivare fino alla fine, deve togliere ogni linfa vitale alla propria musa, alla donna che gli ha permesso di di realizzare un’opera così straordinaria. Il pittore ama la propria arte. Il dipinto è finito ed è bellissimo, imponente ma allo stesso tempo delicato, pieno di dolcezza e di sensualità. La donna è ancora lì, ferma sulla sedia, aspettando di vedere gli occhi del marito illuminarsi di fronte alla propria immagine, contenta di essersi finalmente trasformata nell’unica cosa che il pittore possa veramente amare: l’arte. Ma la donna non vedrà mai la reazione del marito di fronte al quadro perché il pittore non può condividerla con lei, ha preso da sua moglie tutto quello che lei poteva darle, l’ha svuotata completamente, l’ha resa un ramoscello debole e inconsistente, privo di vita. Ha creato un capolavoro estraendo dalla sua musa ogni cellula, ha preso ogni energia vitale e l’ha messa sulla tela. Ha ucciso la sua musa in nome di qualcosa di più grande.

Il pittore ama la propria arte. 

Adesso tiriamo fuori le chiavi, con calma, e apriamo i cassetti. Primo, una riflessione. Per farla, occorre tornare un momento alla cornice: il viaggiatore. Arriva nel castello malato, quasi moribondo, sale in camera, vede il dipinto, se ne innamora e l’opera ha su di lui un effetto terapeutico, lo riporta letteralmente alla vita. Un quadro che è stato causa di morte riporta alla vita. Cos’è allora l’arte? Vita? Morte? Entrambe.

Un’esperienza disforica nella maniera più euforica possibile. Un’esperienza euforica per i fruitori, disforica per i creatori. Un’ingannevole, subdola e bellissima sensazione che rischia di far sprofondare le persone che le si avvicinano nel baratro, senza alcuna speranza di risalire, ma che nelle giornate giuste, con l’animo giusto, può salvare la vita a un moribondo. Una contraddizione continua, una pericolosissima compagna di vita.

Niente coordinate spazio-temporali, in questo racconto: il messaggio che Edgar Allan Poe vuole far passare è universale. Abbiamo provato a interpretarlo, ne abbiamo trovati tanti e selezionato uno, che ci sembra l’unico realmente, indiscutibilmente vero:

Per amare veramente l’arte non bisogna subirla. Chiunque subisca l’arte non può amare nient’altro, tutto il resto sarà solo un contorno nella sua vita fatta di egoismo in cui l’artista non si sentirà mai all’altezza, sempre incompleto, infelice, incapace. In questo caso specifico, l’arte sta al pittore esattamente come il pittore sta alla fanciulla. In termini di vittime e carnefici, il pittore è vittima dell’arte esattamente come la giovane donna è vittima del pittore. In una danza letale, da cui non si esce se non con una tragedia, con la morte, che azzera tutto. E poi si ricomincia.

L’arte tormenta i propri creatori, distrugge le proprie muse. Salva solo i fruitori, quegli uomini umili, che le si accostano con delicatezza, che si limitano a guardarla da lontano, ben consapevoli del pericolo che stanno correndo, ed ergono delle mura invalicabili che le impediscano di fargli del male.

Il pittore ama la propria arte ma l’arte è sfuggente, non si fa prendere. Si offre a tutti con la sua bellezza totalizzante, che toglie il respiro, ma non appartiene realmente a nessuno. Se non a chi riesce a stare al gioco, a comportarsi esattamente come lei ha fatto con il pittore e il pittore con la fanciulla. L’arte ha bisogno di essere violentata, ha bisogno che qualcuno prenda da lei tutto ciò che ha da offrire e poi la lasci lì, inerme. Questo non la ucciderà, la renderà solo più forte, le permetterà di passare di persona in persona, di viso in viso e di imprimere a caratteri indelebili qualcosa di sé in ogni essere umano disposto a contemplarla. Bisogna essere egoisti, per confrontarsi con l’arte. Bisogna proteggere se stessi, tirando fuori un pizzico di apatia e tanto, tantissimo rispetto.


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