Sussurri e grida: la duplicità senza soluzione di Ingmar Bergman

1973: un nuovo tassello viene aggiunto al mosaico cinematografico mondiale con l’uscita di Sussurri e grida, uno dei tanti capolavori di Ingmar Bergman.

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Svedese, classe 1918, regista, sceneggiatore e scrittore, Bergman ha rivoluzionato la storia del cinema con film colossali, oggetto di attenzione dei più grandi intellettuali. Basti pensare ad Elsa Morante, che ha colto la grande capacità rappresentativa di questo “pittore dell’umanità”, abile nell’espressione di svariate forme d’esistenza.

Il film in esame è l’emblema di quella che potremmo definire la complessa duplicità senza soluzione insita nell’animo umano, continuamente teso tra amore e odio, istinto protettivo e distruttivo, pietà e repulsione, senza possibilità di una serena sintesi finale.

Il titolo stesso evoca l’intento registico, Sussurri e grida ci racconta la costante tensione delle quattro protagoniste, intente a simulare felicità e dissimulare tristezza, in uno sforzo continuo che cerca di nascondere il malessere interiore.

Non a caso la pellicola si apre con una camera rossa su cui campeggiano quattro donne vestite di bianco, Agnese, una giovane malata terminale, le sue sorelle Karin e Maria, e la fedele domestica Anna.

Partendo dalla malattia fisica e distruttiva di Agnese, il regista – attraverso l’uso di dissolvenze che assecondano gli alti fini estetici – ci racconta la parabola esistenziale delle fanciulle: tutte malate, a loro modo, e tutte vittime di un mutamento avente come risultato una paralisi irrimediabile.

Con il progressivo zoom su ciascuna delle ragazze, lo spettatore osserva quattro diversi emblemi dell’umanità: Maria abbandonandosi al piacere non afferra la maturità, Karin ostica verso qualsiasi forma d’affetto nasconde un dramma profondo, Agnese soffre per la malattia e per l’assoluta mancanza d’amore, e Anna, unica figura realmente positiva, riversa sull’inferma tutto il suo amore materno, distrutto dalla morte prematura di sua figlia.

Sussurri e grida è un capolavoro per molti motivi, tra i quali non bisogna trascurare l’attenzione cromatica (i colori sono caldi e vividi) e i rimandi artistici (basti solo fare l’esempio dell’evidente riferimento alla Pietà di Michelangelo)

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Tuttavia la cosa più terrificante resta la capacità del regista svedese di mostrarci queste piatte parabole esistenziali, quadri desolanti della finitudine umana.


 

 

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