Il lato oscuro della cultura dello stupro: la violenza sessuale sugli uomini

Ci vuole onestà intellettuale per riconoscere che la nostra società è intrisa di maschilismo e sessimo, grazie alla conservazione di paradigmi culturali e sociali che non solo accettano, ma incoraggiano la violenza sessuale sulle donne. D’altronde, l’onestà intellettuale è ancora più necessaria quando si tratta di smantellare una delle travi fondanti del machismo, quella che vede unicamente gli uomini nel ruolo di carnefici. Se i movimenti femministi e progressisti vogliono apportare un cambiamento benefico sul piano dei rapporti tra i sessi, produrre risultati tangibili con quella che nelle intenzioni dovrebbe essere una vera e propria rivoluzione culturale, non possono prescindere dal riconoscere e accettare un’evidenza statistica, seppure troppo taciuta: anche gli uomini sono vittime, e non solo di altri uomini: anche le donne possono commettere il crimine dello stupro.

Perciò le denunce sul tema degli MRA, le organizzazioni che si battono per i diritti degli uomini contrapponendosi ai movimenti femministi (erroneamente interpretati in quanto maschilismo rovesciato: non rivendicherebbero parità di opportunità e di diritti, ma l’egemonia femminile nel mondo), non sono totalmente campate per aria. Fuori dall’Italia il fenomeno è stato oggetto, fin dagli anni ’80, di numerose ricerche che hanno dovuto scontrarsi con mancanze legislative e resistenze ideologiche di istituti culturali e politici i quali non accettano che anche gli uomini possano essere vittime di abusi sessuali; o che anche le donne possano essere carnefici. Un esempio di questo pregiudizio è contenuto nella definizione valida fino al 2013 negli Stati Uniti: «la conoscenza carnale di una femmina con la forza e contro la sua volontà». Con una nozione talmente escludente, anche le ricerche statistiche risultano falsate, poiché le domande sottoposte al ‘campione umano’ sono formulate in maniera da considerare solo un lato della medaglia, ovvero la violenza maschile sulle donne.

Alcuni studiosi hanno dimostrato che se si comprende nella definizione di stupro anche l’espressione «forzare alla penetrazione», si ottiene una formula decisamente più equa rispetto alle identità sessuali degli individui coinvolti e «si scopre che le donne stuprano gli uomini quasi altrettanto spesso di quanto sono vittimizzate da loro». Il gap tra le violenze sessuali subite da donne e uomini non è quindi così consistente come invece si vuole credere.

Nel 2012, in Italia, è stato condotto uno studio analogo, per provare che anche gli uomini sono vittima di violenza femminile; la ricerca, divulgata dall’associazione Adiantum e sbandierata in toni sensazionalistici, è stata smentita da Giuliana Olzai a causa di vizi sostanziali: se i risultati spingevano a considerare che «in Italia ci sono cinque milioni di uomini vittime di violenza fisica, 6 milioni vittima di violenza psicologica, oltre 3,8 milioni di violenza sessuale e 2,5 milioni di atti persecutori da parte delle donne», d’altro canto venivano calcolati in quanto rilevanti ai fini dell’indagine i casi in cui un uomo si sentiva abusato dalla controparte femminile quando quest’ultima, dopo una fase iniziale di consenso, si rifiutava di proseguire senza dare una motivazione precisa. In quest’ottica, la donna che si nega al rapporto è una donna violenta, ribaltando di segno la fondamentale questione del consenso. Urge in primo luogo ricordare che è il non-rispetto del consenso a costituire violenza, non l’atto di negarlo. In aggiunta, i dati e le dichiarazioni sono stati raccolti utilizzando un campione spontaneo, e gli stessi studiosi ammettono che questo pone il problema della cosiddetta «rappresentatività del campione»: in altre parole, non è possibile proiettare i risultati su scala nazionale.

Una ricerca Istat presentata a febbraio 2018, dal titolo Molestie e ricatti sessuali sul lavoro, ha rilevato che in Italia «sono 8 milioni 816mila le donne e 3milioni e 754mila gli uomini fra i 14 e i 65 anni che hanno subito qualche forma di molestia sessuale». Anche in questo caso, però, i dati sono soggetti a un vizio sostanziale. Mentre il campione di donne intervistate è stato interrogato sull’evenienza di molestie sessuali nei luoghi di lavoro, lo stesso tipo di domande non è stato rivolto al campione maschile, in quanto «data l’esiguità dei casi osservati nelle risposte è stato deciso di non rilevarle nella indagine definitiva».

Da questo breve excursus nei dati del panorama italiano, risulta evidente come sia difficile individuare il fenomeno, soprattutto appare problematico condurre delle ricerche libere da qualsivoglia condizionamento ideologico. Sembra bizzarro come, mentre nel resto del mondo i dati della violenza sugli uomini sono più o meno gli stessi di quelli sulla violenza sessuale sulle donne, in Italia vi sia una disparità così grande.

D’altro canto, è ancora più difficile effettuare studi che abbiano come oggetto individui i quali, ancor meno delle donne, non vogliono, e in alcuni casi non possono, denunciare. Perché se per le donne lo stigma assume la forma del «te lo sei andata a cercare», per gli uomini ammettere di avere subito una violenza, ancor di più se da parte di una donna, equivale a un suicidio sociale. Questo è proprio il lato oscuro della cultura dello stupro: il fatto che un uomo non possa essere stuprato. Se è stato violentato, non è un vero uomo, ma ciò che viene chiamato, con inaccettabile disprezzo, femminuccia. Essere vittima si traduce in una svirilizzazione, un cambio di identità sessuale, che diventa quella inferiore per eccellenza, cioè quella femminile.

L’assioma preconcettuale dell’impossibilità di stuprare un uomo poggia anche sulle reazioni fisiologiche, perché se una donna può, suo malgrado, essere penetrata con la forza, un uomo, per penetrare, deve necessariamente avere un’erezione. Anche in questo caso, molteplici studi hanno evidenziato come l’erezione possa verificarsi anche in assenza di un coinvolgimento di natura emotiva, ma proprio per l’insorgere nell’individuo di sentimenti quali paura o un forte stress. Dunque né l’erezione, né l’eiaculazione sono indicatori certi di un consenso.

In secondo luogo, vige il pregiudizio secondo cui una donna, proprio in quanto considerata sesso debole o inferiore, non possa fisicamente stuprare un uomo, nascondendo sotto il tappeto i casi di violenza psicologica o l’utilizzo di sostanze stupefacenti. Proprio questo aspetto è un ulteriore segnale che indica come il tabù della violenza sessuale maschile sia in realtà di natura propriamente machista, perché non concede alla donna i lati più negativi della sua umanità: il fatto di poter essere anch’ella violenta e non, come una certa e sopracitata cultura la vorrebbe, più gentile, più buona, più dolce, più debole, più incapace.

Inoltre, un uomo stuprato non ha le stesse possibilità di denunciare l’accaduto. Egli non viene preso sul serio dalle istituzioni di sicurezza pubblica, né da quelle giudiziarie, ancora troppo improntate sulla percezione (maschilista) della donna in quanto sesso debole; i centri antiviolenza e le linee di supporto telefonico si rivolgono in primis alle donne e agli uomini maltrattanti, non comprendendo quelle persone di sesso maschile che hanno subito violenza. Solo di recente, qualche iniziativa senza distinzione di genere ha preso piede.

L’incapacità di accettare che anche gli uomini possano subire violenza (da parte di ambedue i sessi) non risparmia nemmeno larga parte dei movimenti femministi, i quali, al contrario, tendono a rincondurre i fenomeni di violenza esclusivamente ai casi in cui un uomo stupra un altro uomo, oppure al fatto che la maggior parte degli uomini vittima di omicidio non sia uccisa per motivazioni ”passionali”, ma di altro tipo (furto, rapina etc.). L’impressione è che ammettendo la violenza sessuale nei confronti degli uomini, tutti i dati che invece registrano le alte incidenze di vittime femminili perderebbero il loro valore, così come si annienterebbe la forza con cui ci si oppone alla società patriarcale e alla cultura dello stupro che essa comporta.

In realtà, trascurando le possibilità di condurre ricerche sul fenomeno, si ottiene l’effetto opposto, poiché ci si concentra solo su uno degli aspetti del maschilismo, quello più evidente che si macchia del sangue delle donne; l’altro lato, in ombra, rimarrebbe intatto e imperante, quello che vuole le donne unicamente come vittime e non come potenzialmente carnefici, allo stesso modo degli uomini; quello che gioca sui silenzi di questi ultimi, poiché anch’essi sono danneggiati dal patriarcato, che tollera unicamente una figura di uomo virilizzata e insensibile fino a un inverosimile parossismo.

Sembra altresì opportuno unire i due aspetti, identificati in quanto due facce della stessa medaglia sessista, dando il via libera anche in Italia a ricerche approfondite scevre da qualunque pregiudizio di stampo ideologico dell’una o dell’altra fazione. Sottovalutare l’importanza del fenomeno non fa altro che dare rilevanza agli MRA, con tutto il loro contenuto di odio e di arretratezza. Se dunque il femminismo vuole distruggere davvero il patriarcato, deve cominciare ad accettare che, sì, il privilegio si incarna nella figura dell’uomo bianco ed eterosessuale, ma le vittime del maschilismo non sono soltanto tutti gli individui che se ne discostano in maniera esplicita.

Inoltre, studiare il fenomeno al di là delle identità sessuali permetterebbe di comprendere se, davvero, la violenza sessuale sia transculturale e oltrepassi confini geografici e limiti storici. Ciò ci conferirebbe nuovi efficacissimi strumenti per fare in modo che essa venga sistematicamente debellata.


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