Disillusioni di una tirocinante infermiera

“Bene” mi ritrovo inevitabilmente a pensare, nonostante tenti di allontanare quel pensiero dalla mia mente in quanto non lo trovo esattamente professionale” quindi aver preso un 30 e lode all’esame di anatomia e fisiologia e conoscere perfettamente il meccanismo di filtrazione renale, che avviene a livello della capsula di Bowman, attraverso il glomerulo, che permette il passaggio solo di molecole con dimensioni inferiori a quelle dell’albumina, che è la principale proteina del corpo umano, è fondamentale per portare la padella alla paziente, aspettare con impazienza che lei finisca di urinare, gettare le urine nella vuota e tirare lo scarico. Perché questo è il massimo del contatto con l’apparato urinario che ho tanto approfonditamente studiato.” Mi vergogno dei miei stessi pensieri, perché ho sempre odiato i miei amici e i miei parenti che, in toni più o meno velati, insinuavano che la mia intelligenza, che mi ha consentito di diplomarmi con il massimo dei voti al liceo scientifico, insieme a un impegno e una costanza che nessuno sembra notare mai, fosse sprecata per fare l’infermiera, per cambiare pannoloni e infilare cateteri. La frase “ma perché, veramente per fare l’infermiera serve una laurea?” Mi rimbomba spesso nel cervello, martellante come un trapano la domenica mattina, soprattutto in momenti come questi. Quando ho iniziato a studiare specifiche materie infermieristiche, ho imparato a rispondere a tono: “L’infermiere è un professionista autonomo, che dispone di un proprio Profilo Professionale e di un Codice Deontologico, l’infermiere non è più lo schiavo del medico, ma collabora con quest’ultimo, e può gestire alcune problematiche di salute del paziente anche in piena autonomia, tramite le diagnosi infermieristiche.” Nella maggior parte dei casi, tutti questi paroloni più astratti che concreti sono sufficienti a far comparire sul volto di tutti un’espressione stupita e a far chiudere le loro bocche non ben collegate con il cervello, evidentemente. Quindi, mentre getto le urine della paziente nel water, richiamo alla mia memoria quelle parole che spesso hanno convinto gli altri, ma che più difficilmente riescono a convincere me. Mentre la mia mente volteggia attorno a questi pensieri, i miei occhi fino a quel momento concentrati ad indagare su una crepa del muro che mi ricorda vagamente un viscido lombrico, cadono sulle urine che passano dalla padella al water, e notano un colore effettivamente troppo scuro. “Il colore delle urine è normalmente giallo paglierino” ripeto a me stessa” urine particolarmente scure potrebbero indicare che c’è un problema ai reni o anche un problema al fegato, in quanto in caso di un difetto di escrezione della bilirubina quest’ultima, già resa idrosolubile dal fegato ,viene riassorbita in circolo e poi eliminata con le urine. Di conseguenza avremo feci chiare e urine ipercromiche.”

“Accidenti, forse allora per un infermiere tutte quelle conoscenze non sono inutili! Anche mentre si svuota una padella bisogna sapere ciò che si fa ed avere delle nozioni di fisiologia per poter svolgere bene il proprio lavoro!”

Senza finire di svuotare la padella, corro da Alessandra e glielo faccio presente in maniera molto entusiasta, fermamente convinta di aver contribuito ad individuare una problematica di salute della paziente: “Alessandra, stavo svuotando la padella della signora e ho notato che le urine erano particolarmente scure! Potrebbe avere un problema epatico o un problema ai reni!”

Alessandra frena immediatamente il mio entusiasmo: “Tesoro, sì, la paziente ha l’epatite, ecco perché le urine sono un po’ più scure. Ma questo i medici già lo sanno.” Conclude con un sorriso che sembra volermi compatire. “Tu pensa solo a mettere i guanti quando svuoti la padella, ok? Mi raccomando! Che ci pensano i medici alle diagnosi…”

Arrossisco visibilmente e mi trascino verso la sala infermieri…

“Ma cosa pensavi, che i medici avessero bisogno di una pivellina del primo anno di infermieristica per formulare la diagnosi di epatite ad una paziente? Stai proprio messa male eh, bella figura anche con Alessandra… Torna alle tue padelle che è meglio…” Penso con aria sconsolata e imbarazzata, scuotendo la testa in segno di disapprovazione.

Continuando a camminare a testa bassa fissando le mie orribili scarpe bianche macchiate di giallo, sperando vivamente che si tratti di antibiotico e non di qualche liquido corporeo, urto contro qualcosa. Anzi, no, capisco sollevando lo sguardo, si tratta di qualcuno, si tratta di Lorayne.

“Scusami.” Balbetto. Lei mi squadra dalla testa ai piedi con un’aria visibilmente irritata e sbotta: ”Ma non sei neanche in grado di svuotare una padella? Sono andata nella vuota e c‘era quella padella mezza piena in bilico. Fortuna tua che non è caduta, altrimenti di certo non pulivo io, eh… Adesso torna lì e finisci il tuo lavoro, e dopo ricordati di lavare la padella, che il lava padelle automatico non funziona. Mettiti i guanti che la paziente ha l’epatite. Vai, su…”

Io rimango allibita, e non sono in grado di proferire parola, anche perché sento che gli occhi mi si stanno riempiendo di lacrime, e il movimento anche di un solo muscolo facciale mi farebbe scoppiare in un pianto isterico. Così annuisco e corro verso la vuota. Mi chiudo la porta alle spalle con rabbia e lascio che qualche lacrima mi solchi il viso privo di qualsiasi trucco. Guardo quella triste padella in bilico, che Lorayne non si è neanche degnata di spostare. Per fortuna mi ricordo di infilare i guanti che, sotto consiglio di Mario, porto sempre in tasca. Torno pigramente al mio lavoro, svuoto la padella e tiro lo sciacquone. Dopo di che la pulisco con un apposito disinfettante e la ripongo insieme alle altre padelle pulite.

“Questo è il tuo lavoro, pulire le padelle, non pensare alle problematiche di salute della paziente.” Mi sussurra una vocina proveniente dal mio subconscio.

Non tento nemmeno di trovare le armi per metterla a tacere, oggi proprio non ce la faccio. E non c’è neanche Mariagrazia a tenermi compagnia, lei oggi farà il turno di pomeriggio, dalle due alle nove. Guardo stancamente le lancette dell’orologio che pigramente scavalcano il numero 12. Ancora due ore allo smonto. “Se restassi qui tutto il tempo, se ne accorgerebbe qualcuno? Probabilmente sì” concludo tra me e me, e trovo la forza di uscire e rientrare in corsia.

 


 

 

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