Il teatro: punto di fuga di Pirandello

Luigi Pirandello è autore enormemente noto all’estero e questa celebrità si fonda in gran parte sul suo teatro. Teatro al quale, a ben vedere, si dedicò piuttosto tardivamente. Lui, del 1867, guarda al teatro a partire dal 1910 , e solo dal 1915 in modo continuato.

In realtà, anche le prime prove narrative di Pirandello portano chiari i segni di una vocazione alla scrittura teatrale. Ci sono, oltre che temi, dei veri e propri termini, sui quali il siciliano torna con arrovello turbinoso, ossessivo quasi, termini che sembrano poter condurre a un unico punto di fuga: il mondo del teatro. Sarebbe necessario quindi riavvolgere il nastro, arrivare al teatro con quella stessa naturalezza, diciamo pure con lo stesso carattere di necessità, che ha segnato il percorso pirandelliano. Cioè, ha senso rileggere à rebours la sua vita, vederne in nuce tutti i segnali che l’avrebbero condotto dove effettivamente l’hanno condotto. Pensare che, poste quelle condizioni, si danno solo quegli esiti.

Luigi Pirandello, classe 1867, siciliano. Il padre era dirigente di miniere di zolfo e il suo lavoro, e cioè i frequenti dissesti finanziari, furono fonte di infiniti fastidi e preoccupazioni. Pirandello entrò ben presto in conflitto con il padre. La personalità brusca e invadente del genitore segna il rifiuto del figlio di alcuni aspetti legati alla figura paterna, come il senso degli affari e più in generale, la capacità di decidere.

Più che a un padre che lo indirizzava agli studi tecnici, Pirandello si sentiva figlio del caos: “Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.

C’è un punto fermo nello sviluppo del pensiero pirandelliano: l’umorismo. Cioè il gusto concreto della contraddizione, del relativo, la consapevolezza dei meccanismi che stanno dietro l’apparenza delle cose. Tuttavia, per sopravvivenza, l’uomo ha bisogno di autoinganni: per credere che la vita abbia un senso, la organizza in convenzioni. L’uomo costringe la vita in una forma e se stesso in una maschera.

Il teatro è la forma artistica più paradossale: volta a rendere artificiosamente il realismo delle cose e realisticamente l’artificio delle stesse. Sin dalle prime prove, Pirandello pone una perdita di identità, un disagio dell’esistenza di uno che nei suoi panni non ci vuole più stare: eccola la tentazione teatrale, il gioco -un serissimo gioco, s’intenda- della finzione.

In Sei personaggi in cerca d’autore gli attori, cioè i personaggi usciti dalla penna creativa dell’autore, si liberano dalla soggezione della finzione e vivono sul serio le loro sofferenze, i loro dolori, le scaramucce di ogni giorno.

Pirandello in questo come negli altri drammi teatrali, però, non si limita a usare i personaggi come divulgatori delle sue tematiche. Per l’autore vi è piuttosto la necessità di comunicare direttamente con il pubblico; per lui, la discussione di certi temi culturali va fatta in pubblico. Con il teatro lo sdoppiamento del personaggio arriva in scena e si fa palpabile, tridimensionale, per così dire. La natura dubbia tanto della realtà, tanto dell’illusione era già stata ampiamente smascherata da Pirandello, ma con il teatro l’autore può inserire realtà e illusioni, con il groviglio di angosce che adombrano, in una iper-realtà, e quindi anche in una iper-illusione, ovvero sul palco di un teatro reale e illusorio. Ogni dramma viene recitato due volte: nella finzione dei personaggi e nella loro verità di esseri umani.

Il dramma è impossibile, non si scioglie, non finisce, ma “così è, se vi pare”.


 

FONTI
Fonte 1

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