Love Giver: la discriminazione degli assistenti sessuali

Da qualche anno anche in Italia si inizia a parlare di assistenti sessuali in relazione alle persone disabili. Nonostante la pratica sia ampiamente sviluppata in Europa (in paesi come per esempio la Danimarca, la Germania o la Svizzera), in Italia le resistenze sono dovute un legame implicito (ma neanche troppo) con lo sfruttamento della prostituzione, reato penalmente perseguibile, e nonostante negli anni siano state avanzate varie proposte di legge, nulla di concreto è stato ancora fatto dal punto di vista istituzionale.

Però, parallelamente, sono nati i primi corsi di formazione, e anche un’associazione fondata da Maximiliano Ulivieri, Love Giver. Lo scopo, tra gli altri, è anche quello di rompere il tabù secondo cui le persone portatrici di handicap siano considerate prettamente asessuate, mentre invece sono, dal punto di vista degli impulsi sessuali, esattamente come i normodotati. La società non accetta che i disabili possano eccitarsi o avere l’esigenza di un maggiore contatto fisico. D’altra parte, nessun normodotato immagina mai di fare sesso con un disabile. Da qui, la necessità e la rivendicazione del diritto di avere una propria vita sessuale.

Aprendo il sito dedicato, si legge, come presentazione del progetto:

L’assistenza alla sessualità a persone con Disabilità rappresenta un concetto che racchiude allo stesso tempo “rispetto” e “educazione”, che solo per un paese civile può rappresentare la massima espressione del “diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale”. […] L’assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità si caratterizza con la libertà di scelta da parte degli esseri umani di vivere e condividere la propria esperienza erotico-sessuale a prescindere dalle difficoltà riscontrate nell’esperienza di vita. L’assistente sessuale è un operatore professionale (uomo o donna) con orientamento bisessuale, eterosessuale o omosessuale che deve avere delle caratteristiche psicofisiche e sessuali “sane” (importanza di una selezione accurata degli aspiranti assistenti sessuali).

Ciò che traspare da queste prime righe, ma in realtà anche da una ricerca generale, è una grande confusione terminologica, tale da rendere molto difficile comprendere esattamente in che cosa consista il ruolo dell’assistente sessuale. È un educatore che indica al paziente i modi più consoni di darsi piacere? No, un’altra breve ricerca smonta le iniziali, e piuttosto ingenue, idee. Gli assistenti sessuali non educano all’autoerotismo, ma svolgono il ruolo del partner in un rapporto sessuale, perché «un corpo non in linea con la bellezza comune, per com’è intesa nella nostra società adesso, rende più difficoltose le interazioni fisiche».

Allora ciò che si richiede a questa figura è di recitare la parte dell’amante per ricreare una situazione pseudoromantica in cui il soggetto disabile possa sentirsi realizzato? E dove sarebbe la differenza con la banale prostituzione? Ah già, l’educazione all’affettività e all’emotività. Questo inciso ricorda Winnicott, uno psicologo che parlava della costruzione dell’identità del neonato. È il tocco del genitore che permette all’infante di acquisire una propria concezione di corpo ed è l’amore contenuto nei suoi occhi che conferisce al bambino un primo e importante stimolo emotivo, che sarà alla base dello sviluppo della sua soggettività. È forse un ruolo di genitore, quello che si richiede? Se affermativa, la risposta sarebbe problematica. Ciò che invece è certo è che non è un partner sentimentale a educare all’affettività o a stimolare la concezione del proprio corpo, ma, appunto, l’amore dei genitori.

La confusione terminologica sembra rispecchiare il problema etico connesso a queste figure. Perché ciò che emerge è che il bisogno di attività sessuali sia tanto importante quanto lo è nutrirsi ogni giorno, o bere, respirare. Ogni individuo ha il diritto di esistere, e dal momento che è necessario, affinché l’esistenza sussista, respirare, bere e mangiare, è diritto inalienabile di ognuno farlo. Affinché avvenga la piena realizzazione dell’individuo, e cioè affinché possa dare il suo contributo alla società secondo le sue qualità e le sue inclinazioni, sentendosi parte integrante di essa e da essa accolto, è necessario che sia libero, che possa istruirsi ed esprimere il suo pensiero. Anche questi sono diritti inalienabili di un individuo.

Ma il diritto al sesso lo è? Perché se noi ammettessimo che avere una vita sessuale intersoggettiva è un diritto, allora il punto successivo sarebbe la giustificazione dello stupro. Poco importa se uno dei due individui non è consenziente, io ho il diritto di fare sesso con qualcuno. E se nessuno mi vuole dare questa possibilità la potrò prendere con la forza, perché è tra i miei diritti.

Diverso, invece, è il diritto di essere considerati dalla società persone complete e integre, anche se in un corpo che sfugge ai canoni della bellezza estetica. Qui si situa il fulcro della questione. Perché, oltre agli evidenti impedimenti etici, se affiancassimo alle persone disabili unicamente gli assistenti sessuali, allora sì, li priveremmo del loro diritto inalienabile a essere considerati delle persone complete, a essere ritenute persone meritevoli di amore e di sesso. Negheremmo loro il diritto di esigere relazioni sessuali e sentimentali vere, non circoscritte all’interno di un’ambigua assistenza, ma costruite sul pieno coinvolgimento emotivo, psichico e fisico delle parti. Rifiuteremmo loro il piacere di innamorarsi e di essere ricambiati. Di percepire di essere attraenti per qualcuno. Di essere trattati alla stregua dei normodotati.

È sacrosanto contrapporsi all’estetica predominante che vuole solamente corpi perfetti che seguono ideali quasi impossibili da realizzare. Ed è altrettanto giusto rivendicare il diritto a essere considerati persone sessuate e con desideri sessuali, anche se diversamente abili. Proprio per questo gli assistenti sessuali, in realtà, non fanno altro che aumentare lo stigma sociale, secondo cui una persona disabile può solamente ambire a un piacere donato per carità o dietro un compenso economico. In questo senso, queste figure non si battono per la liberazione di chi è diverso, ma ne aumentano solamente la discriminazione.

 


FONTI

A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, Saggiatore, 2002

Ricciocorno

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