DOSSIER | Cultural appropriation e globalizzazione: luci e ombre di un’appropriazione (il)lecita

“Cultural appropriation è la ridicola nozione secondo la quale essere di una diversa cultura o razza (specialmente bianca) significa che non ti è permesso adottare elementi da altre culture. Questo non fa altro che supportare la segregazione ed intralciare il progresso nel mondo. Serve unicamente a promuovere segregazione e razzismo”.

Questa è la traduzione della definizione “top” di appropriazione culturale che il celebre Urban Dictionary propone. Ma è davvero questo il significato di cultural appropriation? È così negativo questo concetto che è sempre più presente, sebbene spesso, in modo sottile e capillare?

Negli ultimi anni, un fenomeno che ha reso possibile la pratica dell’appropriazione culturale – amplificandola – è la globalizzazione, intesa come il processo secondo cui le persone e le organizzazioni aumentano le interazioni internazionali, in particolare grazie alla comunicazione e informazione tecnologica e digitale e ai commerci. Può capitare spesso di fraintendere la globalizzazione, poiché alcuni sostengono che essa condurrà alla formazione di una singola cultura, cancellandone le differenze esistenti, ma in realtà ha permesso che elementi tradizionali di molte culture di tutto il mondo potessero essere conosciuti e persino usati da altre, principalmente da quella occidentale: infatti, storicamente, l’imperialismo dell’Occidente è stato predominante dal punto di vista culturale. Perciò non è incomprensibile che un’associazione tra cultural appropriation e globalizzazione possa non essere vista di buon occhio, quando, ancora oggi, si parla di white privilege e le persone marciano pacificamente per ricordare che “Black lives matter”.

La cultura non è che formata da strati: quelli esterni, i più visibili, sono identificati con i simboli, i rituali e gli eroi e, di solito, sono più facilmente plasmabili proprio perché intaccati dalla globalizzazione – ne sono un esempio i vestiti, le abitudini alimentari e la musica. Il cuore della cultura, invece, è il set di valori non scritti che determinano i comportamenti di una certa comunità, delle assunzioni intrinseche che sottolineano le attitudini reali del gruppo umano in questione. Questi valori centrali sono molto resistenti, ed è più arduo cambiarli, mantenendo in questo modo intatto lo spirito della cultura di riferimento: un americano e un giapponese probabilmente indosseranno lo stesso paio di jeans, guarderanno lo stesso film, berranno la stessa Coca-Cola. L’americano mangerà sushi e il giapponese un hamburger, ma il valore alla base della loro cultura di provenienza sarà ben diverso poiché l’americano avrà, ad esempio, una visione del mondo individualista, il giapponese al contrario molto più legata alla collettività. Bisogna dunque cercare di comprendere se la globalizzazione riuscirà ad intaccare anche il cuore della cultura, o rimarrà soltanto negli strati più superficiali.

Ci può risultare utile un altro dizionario, l’Oxford, il quale definisce l’appropriazione culturale come

“L’adozione non riconosciuta o inappropriata di tradizioni, pratiche, idee, ecc di una persona o società da parte di membri di un altro popolo o un’altra società, e tipicamente più dominante.”

A partire da questa definizione è possibile evincere un aspetto molto importante, basilare: l’appropriazione culturale è una pratica di per sé innocua. Ciò che cambia drasticamente la sua condizione è l’uso che se ne fa – o, meglio, la consapevolezza che gli si dà. Una visione più approfondita rivela che essa si rifà anche ad una particolare dinamica di potere nella quale una cultura risulta maggiormente “dominante” rispetto all’altra, ed è perciò diversa da uno scambio culturale, quando le persone condividono vicendevolmente uno o più aspetti del proprio bagaglio culturale e all’interno del quale si nota l’assenza di una sensazione di dominio. Non è, di conseguenza, neanche un esempio di fluidità culturale, intesa come la capacità di far scivolare i confini tra le culture grazie e a causa delle forze e le influenze che trasformano continuamente e progressivamente i contatti tra i popoli. Un esempio di fluidità culturale è la favola di Cenerentola: versioni simili di questa stessa storia possono essere rintracciate ovunque nel globo, nel vicino e nel lontano Oriente, nell’Europa del Nord come quella del Sud. La prima variante conosciuta risale al VII secolo a.C. con la favola di Rhodopis del geografo Strabo, mentre la prima versione letteraria europea è stata pubblicata da Giambattista Basile in Italia nel 1634 prima che venisse “ufficializzata” dai fratelli Grimm nel 1812. Verso la fine del XX secolo Cenerentola, il cui nome veniva tradotto nelle varie lingue, era ben riconoscibile in India, Nord Africa, Nord America, Madagascar, Filippine ed Indonesia… Ciò dimostra che i confini culturali sono sempre stati fluidi ma hanno iniziato a scorrere più velocemente dopo la rivoluzione industriale, l’età del Colonialismo e i continui flussi migratori.

Questo perché il condividere, il prendere in prestito elementi e componenti di una determinata cultura o società non sempre viene fatto con coscienza e con i giusti intenti, e la linea tra appropriazione lecita ed illecita diviene molto labile. A giocarsi tutto è il contesto.

La cultural appropriation diventa negativa quando l’appropriazione in questione viene estrapolata dal contesto e misinterpretata. A volte la scelta di utilizzo può essere innocuo: si pensi ad acconciarsi i capelli con i dreadlock, gli incensi purificativi, tatuarsi simboli tribali, comprare un kimono solo perché così in voga, fare la lettura dei tarocchi o delle carte Hoodoo per intrattenere gli ospiti di una festa, appendere sul letto un acchiappasogni – i quali erano in realtà appesi fuori dalle tende per dare informazioni sul mestiere svolto dal suo possessore, in base ai colori e alle piume usate – all’indossare un costume di Halloween in cui ci si prende gioco di un gruppo etnico o lo si rende in modo stereotipato e mistificatorio, oppure ai bindi indiani. Un esempio più chiaro e decisamente meno innocuo sono le statuette di Buddha.

Ebbene, in paesi come la Thailandia, dove il Buddhismo è la fede più seguita, sono apparsi cartelli tradotti in più lingue in cui si chiede di non sedersi sulle sculture o di non toccare quelle più piccole nei templi poiché oggetto di culto e non, come accade nel mondo occidentale, un oggetto di design. In questo caso, la cultural appropriation genera una mancanza di rispetto nei confronti di una religione e di una cultura. La moda è un esempio lampante di come la globalizzazione abbia reso universale ogni stile, o, meglio: la moda ha reso omaggio e al tempo stesso generato proteste per l’uso che ha fatto delle proprie scelte riguardanti tratti culturali. Ricordiamo l’esempio di Marc Jacobs che, nel 2017, aveva fatto sfilare le proprie modelle con acconciature tipiche dell’Africa sub-sahariana ribattezzandole con termini occidentalmente appetibili (ad esempio, dai Bantu Knots, i “nodi dei Bantu“, ai Mini Buns, traducibile con “mini chignon” o “rotolini“).

Questo non significa che ogni aspetto di un’altra cultura diventi off-limits: il nodo della questione è non globalizzare gli stereotipi per non rischiare di banalizzare le culture stesse. Proviamo a chiederci se quell’oggetto, quella decorazione, tradizione, ecc. ha o meno a che fare con un aspetto religioso e/o culturale ancora fortemente sentito, se le persone, in passato o ancora oggi, sono state giudicate o costrette a provare vergogna per la differenza culturale, se viene venduto o pubblicizzato solo perché di moda in questo momento. Dimentichiamo tutte le possibili implicazioni negative di una cultural appropriation, e proviamo a riflettere e ad agire a favore di una cultural appreciation.

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