Dall’uomo d’arte all’arte di essere donna? Evoluzione della geisha

Ore davanti allo specchio per ottenere l’immagine perfetta: volto diafano, labbra scarlatte, occhi marcati e languidi e una complessa acconciatura adorna di fiori di stagione. Di quanto aumenterebbe il tempo necessario se la trasformazione dovesse essere radicale, ossia se dietro la più iconica maschera della raffinatezza giapponese si celasse il volto di un uomo? Dovremmo chiederlo a Enosuke Hirose, in arte Eitaro, un ragazzo che come tanti ha deciso di seguire le orme professionali della madre, ma che come pochi altri è figlio di una geisha.

Una scelta singolare la sua anche negli hanamachi (“città dei fiori”), i quartieri delle geisha, dove il numero di chi intraprende il lungo tirocinio da maiko (“fanciulla danzante”, nome assegnato all’apprendista geisha) è drasticamente diminuito nell’età contemporanea e dove la presenza maschile è ormai molto limitata. Ben diversa, tuttavia, era la situazione alle origini di questo fenomeno di costume.

Se la prima donna a definirsi geisha fu Kikuya nel 1751, la gestazione del termine fu ben più lunga e propriamente esso non implicava prescrizioni di genere, indicando complessivamente la “persona (sha) d’arte (gei)” e richiedendo una specifica aggiuntiva per distinguere tra onna g. (“donna”) e otoko g. (“uomo”). Il ruolo da ricoprire era infatti quello dell’esperto e versatile intrattenitore, abile nella danza, nel canto, nella conversazione raffinata e di spirito, capace insomma di animare momenti di riposo e socializzazione con un apporto di cultura e sagacia, oltre che di edonismo.

Una simile definizione non può non ricordare un personaggio tipico del Medioevo europeo: il giullare. E difatti, sebbene la tradizione della geisha non abbia equivalenti nella cultura occidentale per ricchezza rituale e simbolica, essa ha le sue radici proprio nei buffoni secenteschi che prestavano servizio alle corti dei daimyō (signori feudali). Conosciuti col termine di taikomochi (“portatori di tamburo”), adempivano a tutti i compiti per i quali ancora oggi le maiko studiano a fondo, dal ballo alla celebre cerimonia del the (cha no yu).

In piena epoca Edo (1603-1868), conclusosi il tempo delle guerre, la società nipponica si ammodernò legalizzando la prostituzione e, nel tentativo di controllare il fenomeno, vennero creati veri e propri quartieri del piacere nei centri urbani di tutto il Paese. Proprio qui nacque l’esigenza di un passatempo per i clienti in attesa del proprio appuntamento. Fu quindi nei bordelli che i taikomochi portarono avanti le loro arti e col tempo furono le stesse donne a dividersi le mansioni, andando via via specializzandosi nel tipo di piacere che potevano elargire ai clienti.

Ben presto le geiko (secondo il termine più in uso oggi a Kyoto) furono più ricercate delle tayu e delle oiran, le cortigiane di altro bordo che, seppur altrettanto acculturate, richiedevano tariffe ben più elevate per coprire le spese della licenza e dei bordelli. D’altra parte le sofisticate performances delle concorrenti costituivano una distrazione adatta alle classi aristocratiche e per di più legale in qualsiasi sala da the o ristorante.

Nel 1887 Van Gogh, affascinato dall’arte giapponese e dalle stampe ukiyo-e in particolare, vi si ispira per realizzare il dipinto Giapponeseria: Oiran.

Le strade di yūjo (“donne di piacere”) e geisha furono da sempre ben distinte e quando il governo riconobbe ufficialmente la professione di queste ultime (1813) e rese necessaria anche per loro una licenza, si adoperò per rimarcare la distanza tra le due figure. Vennero quindi approntati appositi distretti e case per ospitare le geiko (okiya), alle quali furono inoltre imposte norme di comportamento ferree, come l’impossibilità di esibirsi per singoli ospiti, scongiurando così situazioni di intimità promiscue.

Geisha girls: oiran e attendente

Tuttavia nello stereotipato immaginario occidentale la geisha non è poi così diversa dal’etera e in effetti simili possono sembrare nel modo di acconciarsi e vestirsi. Tale affinità venne concretamente enfatizzata all’epoca della Seconda guerra mondiale appositamente per allettare gli stranieri che per la prima volta contattavano il Giappone.

Iniziò proprio in quegli anni il declino delle geisha, costrette a lavorare in fabbrica o forzatamente ridotte a prostitute al servizio dell’esercito imperiale. Questa manovra, varata per contenere le violenze perpetrate dai soldati contro i civili e per assicurare controlli sanitari, venne protratta anche una volta cessate le ostilità con gli americani e anzi le geiko furono messe al loro servizio. Nel 1947 il governo nipponico dichiarò illegale questo tipo di sfruttamento della prostituzione ma per gli stranieri restava oscura l’idea di pagare per una compagnia non sessuale. Prostitute, ballerine di night club, geiko erano indistintamente definite “geisha girls” e la mescolanza di attributi contribuiva al mito delle concubine servili e accomodanti, particolarmente gradito in un Occidente postbellico in cui le donne si stavano sempre più emancipando.

Per via di questi trascorsi, oggi le geisha preferiscono essere definite con il termine meno usurato e distorto di geiko e rivendicano l’importanza e la particolarità del proprio ruolo di custodi di una  tradizione e di valori tipicamente giapponesi come l’ospitalità, sebbene ormai esse siano poco più di un centinaio e quasi tutte impiegate nello storico quartiere Gion di Kyoto.

Per comprendere davvero questo costume bisogna quindi prestare attenzione agli equivoci, voluti o meno, a cui possono dar luogo notizie confusionarie o particolari ingigantiti. La fortuna del romanzo-film Memorie di una geisha ne ha fatto una sorta di finestra globale su questa suggestiva professione. Di forte impatto è la descrizione dell’esame fisico alla quale viene sottoposta la novella maiko e culminante con la deflorazione. Questo episodio rimanda al mizuage (“sollevare le acque”) cerimonia derivata dalle usanze yūjo ma rivisitata per escludere la presenza del cliente, oggi rifiutata da molte comunità di geisha e comunque rispettata puramente per la sua valenza di rituale di passaggio all’età adulta.

Un facile accorgimento per riconoscere una vera geisha tuttavia c’è e ci ricorda che sono i dettagli a fare la differenza: basta valutare come viene indossato l’obi, la fascia che tipicamente chiude il kimono. Solo una prostituta, infatti, la allaccerebbe sul davanti, mentre una geiko si premurerebbe di arricciare il fiocco sulla schiena, a ricordare che tra le cui prerogative non c’è quella di spogliarsi.

Il vestiario distingue anche le varie fasi del percorso di una geisha. Solo una volta affermatasi come tale la donna indossa un kimono dalle maniche più corte e un pattern più sobrio, col colletto internamente foderato di bianco (e non di rosso) e legato da una cintura obi più sottile e corta. Anche acconciatura e trucco si fanno più sobri via via che la geiko accumula esperienza.

 



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