#MeToo sbarca in Cina: #WoYeShi, la risposta asiatica alle molestie

Abbiamo sentito parlare moltissimo del “caso Weinstein” negli ultimi mesi. Una dopo l’altra diverse attrici di Hollywood hanno trovato la forza ed il coraggio necessari per denunciare le molestie e gli abusi subiti sul luogo di lavoro. Il movimento, che si è diffuso sui social con l’hashtag #MeToo, ha ben presto varcato i confini americani, espandendosi anche in diversi paesi d’Europa, aiutando moltissime donne a rompere il silenzio.

In maniera più ovattata #MeToo ha raggiunto anche l’Asia e, sorprendentemente, anche la Cina, dove le donne hanno iniziato a dire la propria, anche se ogni iniziativa procede a rilento e con fatica, ostacolata dall’opposizione del rigido governo centrale.

Se negli USA la scintilla che ha appiccato il fuoco è partita dal mondo dello spettacolo, in Cina invece la prima denuncia è venuta dall’ambiente universitario. Non c’è da stupirsi, il 70% degli iscritti all’università dichiara di essere stato molestato sessualmente (spiega Leta Hong Fincher, attivista nel movimento femminista cinese), la disparità tra professori e studenti è immensa e un rifiuto a delle avance potrebbe compromettere una futura carriera. Per questo nessuno dice nulla.

La prima a denunciare è stata Luo Qianqian, una ricercatrice che attualmente vive negli Stati Uniti: a gennaio ha raccontato su Weibo (l’equivalente cinese di Twitter) l’episodio di molestie subite dodici anni prima da un suo professore. Il post di Lui terminava con un’esortazione, rivolta a tutte le donne, a non avere paura e denunciare eventuali episodi simili al suo. Ha utilizzato per la prima volta l’hashtag #我也是 (#WoYeShi, cioè #MeToo) e il suo post ha avuto più di tre milioni di visualizzazioni in un solo giorno, innescando una reazione a catena, con altre donne provenienti dall’ambito universitario che hanno cominciato a condividere le loro esperienze e loro traumi.

La situazione in Cina, come abbiamo visto, è molto delicata, il governo (a componente esclusivamente maschile) sopprime qualsiasi tentativo di rottura dell’ordine precostituito. In particolare modo si temono delle conseguenze simili a quelle degli Stati Uniti, in cui diversi uomini di potere sono stati abbattuti. Per questo il partito cinese non è solito ricorrere alle mezze misure: nel 2015 delle attiviste femministe sono state arrestate per aver distribuito sui mezzi pubblici degli adesivi contro le molestie sessuali.

Possiamo dunque immaginare come possa essere pericoloso per una donna qualunque seguire l’esempio di Luo (che ha invece preso diverse precauzioni prima di agire, assicurandosi l’appoggio dell’università e di altre donne, raccogliendo prove). Il suo rischia quindi di essere un caso isolato. Per ora hanno risposto all’appello di Luo delle studentesse di altri 20 atenei, ma sono solo un piccolo frammento, rispetto al numero reale: secondo uno studio citato dal Guardian, l’80% delle donne cinesi ha subito almeno una molestia durante la sua vita.

Teniamo gli occhi puntati sulla Cina: #MeToo è riuscito a raggiungere traguardi inimmaginabili qui in Occidente e magari, con un po’ di sostegno a distanza, anche #WoYeShi potrà portare un cambiamento e aiutare delle donne dall’altra parte del mondo.

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